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Elio Germano in America Latina
Dopo La terra dell’abbastanza (2018) e Favolacce (2020), i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo portano l’opera terza, America Latina, in Concorso a Venezia.
Di Favolacce, premiato per la sceneggiatura a Berlino, ritrovano Elio Germano, stavolta assoluto protagonista. Nella Latina contemporanea, incarna il dentista Massimo Sisti, professionale e gentile, l’amata moglie Alessandra e le figlie adorate Laura e Ilenia, una villa architettonicamente preoccupante ma immersa nella quiete, la birretta con l’amico di sempre per unica trasgressione e un rapporto conflittuale come tante. Una vita come tante, fatta di routine e benessere (?), che trascolora improvvisamente nell’incubo, nell’amnesia e nell’allucinazione allorché un giorno scende in cantina e, mettiamola così, scopre il suo inconscio, anzi, l'inconsapevole…
Deragliando dai binari del thriller psicologico, i D’Innocenzo guardano al disastro esistenziale oggi da una prospettiva diversa di Favolacce: non più i bambini, né il macho che vi era interpretato dallo stesso Germano, ma l’adulto, l’uomo dalle competenze femminili, sensibilità in primis.
Omnia vincit amor, e il movimento di rivoluzione del sentimento, giocato nello sdoppiamento tra realtà e percezione, trasforma il piano cartesiano su cui Massimo si muoveva in piano inclinato, dove il recesso, il rimosso, l’osceno sono ascissa, ordinata e traiettoria.
La fotografia di Paolo Carnera sintetizza la metamorfosi, infilando mistero e ambiguità tra le luci, e anche l’interpretazione straniata, difettosa, financo smarrita di Germano certifica l’alterazione di stato, lo iato tra aspirazione (America) e condanna (Latina), eppure, la distanza tra intenzione e realizzazione, volontà e rappresentazione è palese, sensibile, scoperta: America Latina non è un film riuscito.
L’irresolutezza è la cifra: il dubbio narrativo senza beneficio poetico, il guadagno sospeso, come se il malessere non solo non trovasse catarsi, ma nemmeno manifestazione compiuta, sfogo drammaturgico. È, in fondo, un dramma da villa di complicata banalità, malcelata prevedibilità, infida maniera: un film alla D’Innocenzo più che dei D’Innocenzo, probabilmente viziato dal repentino successo, realisticamente condizionato dalla produzione (The Apartment), dannatamente abbandonato a sé stesso. Disagiato più che perturbante.