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A volte è una questione di punteggiatura. Nel 2002 il titolo del film di Costa-Gavras era Amen. , con una condanna che si percepiva già dal titolo. Il riferimento non era certo a una preghiera. Raccontava i rapporti tra il Vaticano e il nazismo. Oggi Andrea Baroni realizza la sua opera prima: Amen. La mancanza del “punto” di Costa-Gavras indica un’apertura, una possibile speranza per il futuro.
I modelli cinematografici sono chiari: Teorema di Pasolini, ma soprattutto Le meraviglie di Alice Rohrwacher. A essere protagonista in Amen è la religione. Baroni mette in guardia davanti agli eccessi, al fanatismo. Invoca una fede equilibrata, armoniosa, mai ancorata all’oppressione e alla violenza.
Il film si concentra su una famiglia che vive isolata, in un casolare in mezzo alla natura. A imporre il credo è la nonna, in una realtà in cui la confessione è una tortura psicologica. L’arrivo di un nuovo parente fa nascere impulsi “proibiti” nelle due nipoti adolescenti, demolisce le certezze di una quotidianità fondata sul controllo. È questo uno dei temi cardine di Amen: la mancanza di libertà, in una cornice bucolica che però si discosta dal realismo magico.
Dal contatto con la terra non nasce una comunione col mondo, ma un rigetto. La tradizione si scontra col progresso. In Le meraviglie era la televisione l’elemento di frattura: una troupe portava scompiglio tra i produttori di miele. Il “nemico” era la tecnologia, i lustrini dello spettacolo. Per Pasolini la questione era più ideologica, l’attacco era a una società borghese sull’orlo del baratro. Baroni li omaggia, per poi discostarsene. Si sofferma sugli istinti, sulla passionalità dell’adolescenza. Mette in scena la lotta tra generazioni, l’implosione della famiglia, ma anche la manipolazione della fede.
Le parole della Bibbia vengono utilizzate per altri scopi, vengono private di ogni spirito caritatevole. Amen è un film lucido, che trova forza nelle sue imperfezioni. Baroni padroneggia la macchina da presa, gira con rigore, anche accostandosi all’iconografia religiosa classica. La luce simboleggia in questo caso una santità perduta, costretta a cedere il passo all’ombra e a colori più scuri. Un esordio che fa ben sperare per il futuro, presentato in anteprima all’ultima edizione del Torino Film Festival.