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Altrimenti ci arrabbiamo
Non è un remake di Altrimenti ci arrabbiamo. Eppure il titolo è lo stesso. E la trama anche. Insomma, non chiamiamolo così, ma di questo si tratta. Al posto della mitica coppia formata da Bud Spencer e Terence Hill vi sono Edoardo Pesce e Alessandro Roia, alla regia gli YouNuts! (Antonio Usbergo e Niccolò Celaia) anziché Marcello Fondato, Christian De Sica sostituisce John Sharp nei panni del “cattivone” e Alessandra Mastronardi fa la circense truffaldina che nel film cult del 1974 era interpretata da Patty Shepard. L’iconica Dune Buggy rossa fiammante invece è sempre quella. Ed è nuovamente protagonista di questo buddy movie 2.0.
Questa volta Carezza (Pesce) e Sorriso (Roia) devono mettere da parte gli antichi rancori e le diversità caratteriali per ciò che hanno più a cuore: la mitica automobile sottrattagli dall’avido Torsillo (De Sica), uno speculatore edilizio senza scrupoli. Nella missione saranno aiutati dall’intrigante e pericolosa Miriam (Mastronardi).
Scazzottate, pugni, inseguimenti e corse acrobatiche in questo consiste essenzialmente tutta la vicenda. Ma l’“operazione nostalgia” dei due videomaker romani, precedentemente riuscita con Sotto il sole di Riccione (su Netflix lo scorso anno), chiaramente ispirato al film Sapore di mare, questa volta funziona poco.
Colpa dei due protagonisti (Pesce e Roia) sicuramente meno collaudati degli ineguagliabili Bud e Terence? Non solo. Sono tanti gli elementi che non vanno: meno risate e meno genuinità, poca originalità (è riproposto perfino il brano Dune Baggy di Oliver Onions arrangiato da Federico Zampaglione e intitolato Dodging Bullets), una scrittura banale (stavolta manca lo zampino di Enrico Vanzina?) e un’eco di quel mondo fantastico dell’intrattenimento che fu, pullulante di ottimismo, in questi tempi del tutto assente. In compenso ci sono tanti colori e un universo da fumetto, ma, come dire, non bastano.
La consapevolezza e il timore di avvicinarsi a un film del genere perché altrimenti il pubblico si poteva arrabbiare, c’era fin dall’inizio. Rifare qualcosa, come ricorda lo stesso De Sica che, a suo tempo, fece il remake (e andò bene) de Il Conte Max di suo padre Vittorio, non è sempre un sacrilegio. Ma il problema qui è il presupposto: poco sincero e per questo anche più criticabile. Per dirla alla Guadagnino: chiamate le cose con il loro nome. Qui lo chiamano, anzi lo chiamavano (per citare un altro titolo, stavolta anche a tema ovvero il cult di Bud e Terence Lo chiamavano Bulldozer) un non remake. E questo magari non farà arrabbiare, ma sicuramente predispone male.