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Cinquantatré volti sfilano davanti alla cinepresa di Massimiliano Finazzer Flory, regista, attore, drammaturgo che, quasi sessant’anni dopo, rinverdisce i Comizi d’Amore pasoliniani nell’Italia al tempo della liquida. Tutti si interrogano con disarmata autenticità sul senso dei sentimenti, molti si scoprono, alcuni si confessano, altri ancora si liberano. Sono italiani e migranti, giovani e anziani, cantanti e contadini, proletari e borghesi. Ornella Vanoni e il mendicante sotto casa, Maria Rita Parsi e i liceali.
Umanità “trasversale” -come la definisce il regista- che ritorna sugli stessi temi che spinsero il Poeta ad arare lo Stivale negli anni Sessanta da Nord a Sud: l’amore, la sessualità, l’amicizia, l’eros, il senso delle relazioni. Di Pasolini rimane l’eleganza del bianco e nero e il metodo di indagine. Sono scomparsi, però, i comizi: non c’è più la massa proletaria, niente più folle che si accalcano vocianti intorno al microfono dell’intervistatore. Anzi non c’è neanche più il microfono, ma protagonisti isolati, intervistati a turno, che tradiscono però la stessa fame d’amore degli antenati. Finazzer Flory si accosta loro con riserbo, quasi con pudore nella Milano futuristica di cantanti e designer, nella Roma Monumentale dei ragazzi (di vita), nel Friuli rurale e sospeso in un limbo ancestrale.
I colloqui si sono abbreviati, sono diventati meno insistiti, meno inquisitivi – certe questioni non sono più così scottanti come allora- ma non perdono autenticità, assorbendo la compassata grazia che intelaia il documentario. Finazzer Flory cuce il generale dal particolare, articola un discorso sociale valorizzando le individualità, puntella il destino collettivo di sogni e angosce private. Più che tendere fili rossi, così, lascia che lo spettatore li componga da sé, ravvicinando le diverse tessere del mosaico sociale che collidono per cortocircuiti autonomi e impredicibili.
Docufilm garbato, derivativo ma non devozionale, ingentilito dal sotto-testo musicale, dialoga vis-à-vis con l’ipotesto e con l’opera omnia pasoliniana senza tradirla. Ma lo sconforto per l’Italia retriva e moralista che radiografava Pasolini qui pare rarefatto in una vena più fiduciosa, insospettabilmente speranzosa verso le sorti della nazione e la missione relazionale del cinema nel suo farsi e vedersi, insieme.