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Abel Ferrara, il noto autore di cinema statunitense, è ormai uniformemente ritenuto un ribelle, un bad boy. Duro, spigoloso, sempre in conflitto con i produttori e le loro restrizioni. Alive in France ci offre, invece, un punto di vista alternativo.
Non che Ferrara, nel suo auto-documentario, rinunci alla propria identità. Semplicemente, la inquadra da un’altra prospettiva, quella del musicista. Il film segue il tour francese del suo gruppo musicale, organizzato in occasione della rassegna Addiction at Work, promossa dalla Cinematheque de Tolouse, sul cinema del regista.
Di cinema si parla comunque, beninteso, ma, in generale, si parla poco. Alive in France è un arazzo: comunica con le proprie immagini, intessuto dai fili di una band alle prese con problemi fin troppo umani: invitare persone ai concerti, esigere un soundcheck all’altezza, appassionare il pubblico. Poco importa che il batterista originale sia assente, per problemi di no-fly list, anzi, fa quasi bene al documentario quel pizzico di conflitto in più, che lo avvicina alla narrativa.
Il conoscitore di Abel Ferrara è premiato con la possibilità di sbirciare nella vita del regista, ascoltare aneddoti, assistere a reazioni naturali imprevedibili, non scritturate, insieme ad amici, colleghi, sconosciuti e familiari. Il non-conoscitore potrà comunque godersi un degno documentario musicale, tra soundtrack neo-noir originali e musica rock con tendenze underground.
Ne emerge l’esplorazione di un ambiente, quello francese e, sul finale, parigino, al contempo cinematografico e sociale, generazionale, descritto di rimando dall’occhio di chi, con occhi e orecchie, crea storie. In conclusione, i profili del musicista e del regista collidono in una sola (carismatica) persona. Forse era a questo che ambiva Abel Ferrara, con Alive in France, e a questo arriva puntuale.