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Alì ha gli occhi azzurri
Dopo Saimir di Francesco Munzi ecco un altro film italiano capace di raccontare l'integrazione dal punto di vista degli immigrati. E' Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi che ritorna al Festival di Roma - stavolta in concorso e con un film di finzione - portandosi dietro uno dei personaggi al centro del lavoro precedente, l'egiziano Nader Sarhan del documentario Fratelli d'Italia.
Nader proviene da una famiglia egiziana stabilitasi a Ostia, è iscritto a una scuola secondaria frequentata da tantissimi immigrati di seconda generazione, (è l'Istituto Toscanelli), si sente figlio di due patrie. E' uno straniero italiano. Trascorriamo sette giorni nella sua vita: Nader mentre pratica l'arte del bighellonaggio, Nader che "marina" la scuola per i matiné, Nader che balla e balla, dal freddo e sulla linea della legalità, accompagnato da un buon amico che è anche un buono a nulla.
Nader che adora la famiglia e che ama la sua ragazza (la vera famiglia del vero Nader, la vera ragazza del vero Nader), due affetti inconciliabili perché lei è italiana, mamma e papà no. Nader che fugge via, di casa, da scuola, da una cultura - musulmana - che non sente più come la propria, Nader che porta pure le lenti azzurre per sembrare meno egiziano e "vedersi" più italiano. Ma Nader non lo è del tutto, non ancora, neanche in fondo a se stesso.
Non si trova, né qui né lì, nonostante Giovannesi lo marchi stretto. Ispirandosi a un verso di una poesia di Pasolini ("...dietro ai loro Alì dagli occhi azzurri...", Profezia, 1962) ma facendo sua la lezione dei Dardenne - macchina a mano, pedinamento, montaggio rapido, improvvisazione e spaesamento - il regista romano aderisce all'ottica biforcuta del suo personaggio, il cui secondo sguardo, quello italiano (le lenti a contatto azzurre), non riesce a fondersi con quello primario.
Fotografato da Daniele Ciprì (che opta per una luce rigorosamente naturale), Nader s'imprime sulla pellicola come l'incompiuto, l'adolescente le cui intenzioni rimangono inespresse, tradite da un'azione che s'inceppa (prima non riesce a rapinare un negozio da solo, poi a fare l'amore con la propria ragazza, infine ad "aggiustare" le cose con i rumeni) e sparisce lungo un tragitto - di crescita, d'integrazione, in una parola: identitario - che gira a vuoto. Non si trova più Nader - come potrebbe? - perché si nega alle classiche logiche del racconto, rifiuta una maschera, non si lascia imbrigliare nel dover-essere del conformismo, delle culture e della narrazione. Giovannesi sottopone la fiction al metodo del documentario, lasciando che sia il vero Nader a generare se stesso sullo schermo, sganciandolo da qualsiasi appiglio psicologico, sociologico, spettacolare, non assegnandogli nemmeno uno spazio, che si dipana sul momento, tracciato dal movimento degli attori in scena. Ostia è una periferia come tante, il mare un orizzonte qualsiasi, la scuola un luogo riconoscibile solo quando entra in contatto con le orbite esistenziali dei ragazzi.
Gli occhi di Alì sono fintamemente azzurri, quelli di Giovannesi sono cristallini per davvero: non stravolgeranno il cinema italiano ma gli restituiscono una purezza di cui aveva bisogno, scovando una volta tanto nel cuore del reale, e non nella testa di uno sceneggiatore, una piccola grande storia.