Dopo la tragedia di Vermicino, i genitori del povero Alfredo Rampi chiesero di non far sentire più la voce del figlio caduto nel pozzo artesiano. Di Alfredo ci resta una foto in bianco e nero, sorridente al mare: indossa una canottiera a righe, ha una posa simpatica e baldanzosa e ignora il suo triste destino. La miniserie diretta da Marco Pontecorvo inizia proprio ricostruendo il momento dello scatto in spiaggia, con il piccolo Kim Cherubini a impersonare un bambino come tanti: più Alfredo che Alfredino, come tutti lo chiamiamo da quel maledetto mercoledì 10 giugno 1981 facendolo diventare va da sé figura iconica, immagine votiva, icona popolare.

Il protagonista delle quattro puntate co-prodotte da Sky Italia e Lotus Production (passate su Sky nel 2021, a quarant’anni dalla tragedia, ora su Rai Uno in prima serata l’11 e il 12 giugno), infatti, non è il povero bambino morto dopo tre giorni di agonia, ma una nazione intera; anzi, al centro c’è il romanzo di una nazione. Questo perché Alfredino – Una storia italiana sposa la tesi, per certi versi molto condivisibile, che dopo il racconto di Vermicino la televisione italiana abbia definitivamente perduto l’innocenza, spingendosi oltre le barriere del visibile e del narrabile in una diretta infinita e straziante.

Non si tratta, esattamente quarant’anni dopo, di criticare quella scelta: ci sono i fatti a testimoniare come una trasmissione straordinaria nata per gioire di un evento sia finita per spettacolarizzare l’angoscia e la sofferenza di una vittima e dei suoi cari ma anche di un’intera popolazione, con il più eminente rappresentante giunto sul posto per seguire le operazioni, spettatore privilegiato e primo sconfitto. E se la voce di Alfredino nel pozzo non si sente se non per qualche secondo nel primo episodio, quasi a voler dare la cifra della distanza tra il punto in cui è caduto e il mondo sopra, a rimbombare è il silenzio del presidente Pertini, praticamente muto per la maggior parte della sua apparizione solo in superficie epifanica.

Massimo Dapporto e Francesco Acquaroli in Alfredino - Una storia italiana
Massimo Dapporto e Francesco Acquaroli in Alfredino - Una storia italiana

Massimo Dapporto e Francesco Acquaroli in Alfredino - Una storia italiana

(Lucia Iuorio)

È forse questa l’intuizione migliore della miniserie, perché restituisce lo smarrimento, l’inadeguatezza, l’impossibilità di trovare le parole perfino da parte del capo più energico, carismatico, passionale. Nei panni del vecchio partigiano sconvolto dall’avvenimento che sembra via via quasi dolersi del proprio protagonismo, Massimo Dapporto incespica tra una folla che ne riconosce lo statuto morale incarnando lo strazio di chi ha vinto una guerra e non sa salvare un bambino in un pozzo. È un peccato che questo legame tra l’uomo sceso dal colle più alto e il bambino finito nel punto più basso si esaurisca un po’ lateralmente tenendo in prima linea tutti gli altri protagonisti della vicenda.

La scelta è trasparente: nella lettura degli sceneggiatori Barbara Petronio, Francesco Balletta e Alessandro Bernabucci, Alfredino è anzitutto Una storia italiana. È la storia di una famiglia di brave e sfortunate persone, dominata da una figura materna così tenace e dignitosa nella tragedia da diventare la mamma di tutti (Anna Foglietta, sopra le righe; il marito è Luca Angeletti, più asciutto); di un popolo votato alla solidarietà e al mutuo soccorso, sempre pronto a intervenire (la geologa Valentina Romani prima dell’ascesa, gli speleologi Giacomo Ferrara e Daniele La Leggia: giovani e idealisti) e che ha la consuetudine all’aiuto disinteressato (i volontari); del corpo dei vigili del fuoco, servitori di uno Stato che cercano di sopperire con l’umanità alla scarsità di mezzi (spicca il pater familias Vinicio Marchioni; invece il prefetto che sovrintende il tentativo di salvataggio è Francesco Acquaroli, che del cast è il più in palla per la capacità di trasmettere il peso della responsabilità); della televisione, con i giornalisti che non sanno amministrare la fame di notizie né ragionare sulle conseguenze.

Una corale del dolore, sovraccarica di facce, che si inserisce all’interno di questa ferita mai rimarginata per scandagliarne contraddizioni e palpitazioni. Il problema, tuttavia, è proprio nella scrittura, nella latitanza di una voce che non sia l’eco di un accumulo didascalico, nella scorciatoia di una replica dei fatti che non ha il coraggio dell’iperreralismo e preferisce appoggiarsi su una prevedibile mediazione realistica. Quando osa (il drone che sorvola la folla attorno al pozzo sulle note di Impressioni di settembre, con relativa polemica da parte della PFM, o l’utilizzo intelligentemente anacronistico di Alfredino, la grande canzone dei Baustelle) si rivela sorprendente per la propensione a liberarsi dagli schemi, mantenendosi sul filo di una trasfigurazione perfino problematica che però progressivamente si spegne nel timore di non farsi comprendere (leggi: accettare) dal pubblico generalista, nell’adesione agli stilemi narrativi della fiction Rai, nella paura di scontentare qualcuno.

Daniele La Leggia, Giacomo Ferrara e Valentina Romani in Alfredino - Una storia italiana
Daniele La Leggia, Giacomo Ferrara e Valentina Romani in Alfredino - Una storia italiana

Daniele La Leggia, Giacomo Ferrara e Valentina Romani in Alfredino - Una storia italiana

(Lucia Iuorio)

Inoltre – e forse la pecca maggiore – il modello seriale di Sky impone un ricorrersi di frasi vanamente sentenziose e metafore dissonanti rispetto al contesto che dimostrano una certa difficoltà nel restituire l’orizzonte e l’universo di personaggi che nella resa interpretativa non sanno farsi icastici. A mancare nella miniserie è il senso claustrofobico della tragedia: quello del bambino che – grazie al cielo – non vediamo mai in fondo al pozzo ma di cui percepiamo la presenza irraggiungibile, come nelle drammatiche sequenze con i soccorritori che scendono nel pozzo parallelo scavato per accedere a quello di Alfredino. Ma anche quello che coinvolge un popolo raccolto attorno al buco o di fronte al televisore: perciò in questo senso sembra un po’ sprecata l’impressione straniante che lo spazio di Vermicino possa essere un set, un’intuizione che si disperde nell’incertezza del tono.

Il problema è la voce, si è detto, ma a latitare è una visione che non sia la ricostruzione scolastica di qualcosa che ci è noto: curioso che una riflessione critica sul ruolo dei media nel trattare il dolore finisca per fiancheggiare la ricerca di un oggettivismo che lascia poco alla meditazione dello spettatore, se non nella misura della naturale empatia verso le vittime. E di quella storia italiana che è già diventata astrazione, dove la topografia resterà per sempre immolata al trauma di una morte inconcepibile, nonché sineddoche d’un certo modo di fare informazione, nella sua restituzione ci viene a mancare la persistenza di quell’incubo.