PHOTO
credit Antonello&Montesi
Opera terza del trentacinquenne Vincenzo Alfieri, Ai confini del male (Sky Original) traduce in immagini il romanzo Il confine di Giorgio Glaviano e guarda esplicitamente a modelli d’oltreoceano (il regista, anche sceneggiatore con Glaviano e Fabrizio Bettelli, cita Seven e Prisoners).
Se sul piano dei personaggi c’è una chiara referenza alla tridimensionalità e all’ambiguità dei protagonisti di quelle storie, è per atmosfere, umori e colori, nonché geografie decentrate e geometrie oblique, che questo thriller trova una sua collocazione, recuperando e aggiornando la lezione dei gialli all’italiana: clima sospeso, piccole società chiuse nei loro circuiti immorali, traiettorie morbose, peso del passato che incide sul presente e condiziona il futuro.
Al centro due carabinieri: l’uno, Meda detto Cane Pazzo, perseguitato dalle proprie psicosi dopo la morte della moglie e del figlio (Edoardo Pesce, piuttosto animalesco); l’altro, il capitano Rio, barricato nella disciplina militare e perciò padre anaffettivo (Massimo Popolizio, di mestiere).
Vivono – sopravvivono – in un paesino di duemila anime, sconvolto dal ritorno dell’Orco, che dieci anni prima rapì, torturò e uccise alcuni adolescenti e ora ha rapito il figlio di Rio. Nonostante le diffidenze reciproche, i due indagano insieme per scoprire l’identità del mostro: alla radice della disperazione plateale o nascosta, una catabasi alla ricerca della verità.
credit Antonello&MontesiCome promette il titolo, Ai confini del male costeggia le tenebre di una comunità ferita a morte scandagliandone due solitudini emblematiche: da una parte l’uomo perduto che vive ai margini di un sistema cannibale, uno spettro dissoluto sul piano sessuale, disinteressato alla vita perché spolpato; dall’altra l’uomo forte in apparenza immune al dolore perché difensore di un ordine falsamente retto, corpo estraneo in una famiglia che lo rifiuta, lo respinge, lo colpevolizza.
Alfieri fa bene a non ammiccare al pubblico cercando strade meno battute e ha le idee chiare quando mette in campo coordinate spaziali volutamente sfocate e un apparato umano ben servito da un buon cast. Peccato per il taglio un po’ lungo che incide sulla tenuta della tensione e rischia di disperdere il coinvolgimento nella risoluzione accanto ai protagonisti.