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Agadah
Il poema cavalleresco non passa mai di moda, specialmente al cinema. Il pubblico ama le storie di cappa e spada, i duelli al chiaro di luna e le fughe d’amore osteggiate da famiglie potenti. È il fascino di un’epoca lontana, quando l’onore era la vera moneta di scambio tra gentiluomini. La virtù e l’etica spingevano a compiere imprese grandiose, a sfidare il demonio per vedere l’orgoglio dipinto sul viso del proprio padre. Si sente un alone di fiaba ancora affascinante, perché ormai queste storie si leggono solo su libri e fumetti. Il brivido dell’ignoto alimenta il nostro immaginario di spettatori avidi di meraviglie, mentre maledizioni e castelli diventano protagonisti.
In Agadah, i secoli si sovrappongono e la realtà si fonde con le leggende. Nel 1815, il conte Potoski lavora al suo romanzo in un palazzo sfarzoso. Poi si salta nel maggio del 1734, con il giovane vallone Alfonso Van Worden in viaggio per raggiungere il suo reggimento a Napoli. È al servizio del re, della patria e soprattutto del proprio orgoglio. Quando attraversa l’altopiano delle Murgie, il fedele servitore Lopez lo ammonisce: quella zona è infestata da fantasmi, da presenze malefiche che si nutrono di carne umana, è bene andarci cauti.
Van Worden non arretra, non abbassa la testa davanti al pericolo, e si ferma a dormire in masserie infestate e lugubri cimiteri. Ma al calar delle tenebre, lo spadaccino dall’animo nobile scopre la lussuria, le tentazioni, e si trova invischiato in un turbine di pulsioni erotiche, di mostri e di scheletri. La realtà abbraccia una dimensione ultraterrena e fino alla fine Van Worden non saprà se si trova in un incubo o in un’altra battaglia, dove i nemici non sono gli uomini, ma gli spettri.
Il regista Alberto Rondalli gira un film ambizioso, una sorta di Decamerone con continui riferimenti a Le mille e una notte. Ma i ripetuti flashback appesantiscono la narrazione e il rischio è quello di perdersi in troppe storie, spesso irrisolte. Il filo conduttore è la penna di Jan Potocki, autore del Manoscritto trovato a Saragozza a cui il film è liberamente ispirato. Agadah è un termine cabalistico che significa “narrare”.
Sulla scia de Il destino di un guerriero, Rondalli cerca di dipingere un affresco di grande impatto visivo, ma la suddivisone in capitoli (le dieci giornate) e i salti temporali non aiutano, la fantasia si trasforma in confusione. A tratti sembra di assistere a una serie televisiva, di quelle non riuscite. Gitani, ebrei erranti che si improvvisano messaggeri, misteriosi cabalisti e donne tentatrici si avvicendano sul grande schermo in un racconto troppo colorato e anche troppo lungo.
Diecimila avventure, altrettanti eroi e perfidi signorotti, e le pagine di Potocki come punto di riferimento “alto”. La macchina da presa indugia su di lui per chiudere il cerchio e trovare un senso alla vicenda. Per un attimo ci prova anche la platea, prima di smarrirsi e infine (si spera) ritrovarsi.