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Afterschool
Sesso, bugie & videotape. Potremmo parafrasare così Afterschool, diretto dall'italo-brasiliano Antonio Campos e già caso al Certain Regard di Cannes nel 2008. Sulla scia dell'inarrivabile Elephant di Gus Van Sant, ma anche prendendosi tutte le scorciatoie del caso (dell'arte), il giovane regista, anche sceneggiatore e montatore, porta la sua macchina da presa catatonica e "sgrammaticata" in una prep school Usa (esperienza nel suo curriculum vitae), dove i samples del porno virtuale sono più appetibili della prima volta reale, la cocaina viene tagliata col topicida, le camere sono condivise soprattutto dalla menzogna e la più bella della scuola, in duplice copia, è la vittima predestinata. Innanzitutto, della noia, una noia omicida. Come horror vuole, non a caso, perché qui l'orrore è quello dell'ipocrisia americana, l'elaborazione asettica e farmacologizzata di ogni lutto, dalla morte della Barbie di turno alla guerra in Iraq. Dal piccolo al globale, dagli studenti dell'oggi alla classe dirigente che saranno, questo doposcuola – titolo ingannevole, non è per teenager – sa anche di post educazione, ovvero la seconda realtà virtuale, meglio artificiale, in cui, almeno a una certa età, si vive e si impara sempre più, a scapito della vita, quella fatta di carne, ossa e aria, che letteralmente non si sa più vivere.
E pazienza se tra questa realtà di seconda mano – una mano stupefacente e letale – e l'estetica YouTube, Facebook e simili, il compiacimento di Afterschool fa capolino sulle spalle altezzose del lowbudget e dell'arte che (non) si vuole tale. Sono bugie anche queste, ma (quasi) innocue... E comunque necessarie per raccontare altre menzogne, e altri specchi, che Antonio Campos ha la forza di infrangere e mandare in mille pezzi, tagliandosi pure le mani, se non gli occhi. Ma sono ferite che non scalfiscono la sua consapevolezza, quella di un "fighetto" cresciuto a prep school. Ma, fortunatamente, non anestetizzato.