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After Work
Il lavoro è un diritto ed ogni giusta Costituzione civile ne riconosce il beneficio, promuovendone le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Un assunto sì onorevole nella teoria, ma costantemente tradito nei fatti. Essendo concetto mutabile, nell’odierna contemporaneità in cui l’evoluzione tecnologica stabilisce e scompone, il lavoro ha dovuto tener conto dei mutamenti sociali, del persistere di un’aggiornata schiavitù e la proliferazione di sempre più umanizzati sostituti artificiali.
Partendo dall’appena citata asserzione e da quella maggiormente longeva dell’attività lavorativa come fondamento della propria identità, il documentario di Erik Gandini After Work si presenta come indagine dinamica, proponendo linee di ragionamento che scaturiscono dall'accostamento di storie personali e circostanze universali, dal quale emerge l'ormai indistinguibile legame tra vita e lavoro. Ad essere messi in correlazione, individui provenienti da luoghi ben distinti del mondo che qui assumono il ruolo di testimoni emblematici della specifica tendenza nazionale.
Ad aprire, uno zelante coreano ipnotizzato davanti uno schermo che clicca il mouse, divenuto prolungamento della sua stessa mano, attesta l’eccessivo accanimento lavorativo del Paese. Al suo fianco, la giovane figlia ne certifica l'ossessione normalizzata come unico modo in Corea per considerarsi felice, nonostante tale dedizione impedisca di vivere il “fuori”. In netta contrapposizione, il ricco Kuwait, dove la sovrabbondanza di dipendenti che ricoprono la medesima posizione causa il non svolgere alcun incarico ed essere comunque ben retribuiti. Nessuna fatica certo, ma condannati a non avere alcuno scopo, giorno dopo giorno.
Cosa sia meglio e cosa sia peggio: questo è il quesito che affiora. In una società dove è il cosa fai a conferire specificità alla persona, il non essere attivo risulta più degradante ed insoddisfacente che lavorare senza tregua, accettando ritmi logoranti. Ci si sentirebbe vuoti a non fare nulla, seppur apparentemente liberati. Ed è la “deposizione” della fattorina americana di Amazon a darne riscontro: venire sorvegliati durante il turno, sottostare ad orari massacranti e a soffocanti limitazioni, ma sentirsi appagati nell’essere parte integrante del meccanismo.
A confronto, il quotidiano di due ereditieri italiani che hanno il privilegio di adoperarsi per occupare il tempo e non per dover sopravvivere. Posti a puntellare le varie testimonianze, gli interventi di alcuni esperti. Da quello filosofico del far risalire la moderna etica del lavoro al Calvinismo e probabilmente all’etimologia del termine labor (pena) a quello sociologico che descrive i cosiddetti “neet”, ovvero i giovani che non lavorano e non studiano (con un troppo riferirsi ai "bamboccioni" italiani più che agli altri).
Come tasselli di un puzzle, la narrazione prosegue su situazioni antitetiche e sfrutta quindi paradossali giustapposizioni affinché lo spettatore giunga a porsi domande. L’idea del reddito di base universale è legittimo? La produzione automatizzata andrà a soppiantare l’uomo? Ci sarà un futuro libero dal lavoro? Tanti, anzi troppi, sono gli interrogativi che Gandini lascia in sospeso e senza alcun appiglio di riflessione.
E malgrado il caratteristico umorismo, già rilevante in Videocracy (2009), e la comprovata arguzia, le tematiche del film non appaiono nuove o raccontate in maniera inedita, anzi sono la ripetizione di un argomento molto utilizzato nelle recenti produzioni audiovisive e perennemente in prima linea.