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Una scena di
Across the Universe
Operazione ad alto, altissimo rischio, quella in cui si è tuffata Julie Taymor, apprezzata regista teatrale già prestata al cinema per Titus e Frida: l'opera dei Beatles, punto di riferimento e nucleo narrativo di Across the Universe poteva trasformarsi in materia incandescente se trattata non con le dovute cautele. Gli anni '60, i turbamenti sociopolitici dell'America impantanata in Vietnam, gli scontri razziali e i movimenti pacifisti che, proprio sulle note dei Fab Four (con John Lennon icona di un messaggio universale), urlavano al mondo il loro dissenso: contorno di fuoco per la bella storia d'amore tra due ventenni, Jude e Lucy - il destino nel nome... - interpretati dai bravi Jim Sturgess ed Evan Rachel Wood. Lui si allontana da Liverpool per raggiungere gli States in cerca del padre mai conosciuto, rimanendo folgorato dal ribelle Max (Joe Anderson) che seguirà fino a New York. Lei, sorella di quest'ultimo, attende il ritorno del fidanzato soldato in Vietnam, piangendone poi la morte. Si incontrano, si amano, rischiando di perdersi proprio a causa dell'ambiente circostante, lo stesso che aveva accolto il germogliare del loro sentimento. Pop nella rivisitazione musicale - curata dal compositore Elliot Goldenthal, marito e fedele collaboratore della regista - e psichedelico nella rappresentazione sempre sospesa tra realtà e immaginazione (sorprendenti, e al limite del kitsch d'autore, alcune sequenze realizzate con tecniche d'animazione computerizzata e artigianale), Across the Universe - presentato nella sezione Première della recente Festa di Roma - potrebbe far pensare al The Wall di Alan Parker, racconto visionario a tutti gli effetti adagiato sui testi e le sonorità dell'omonimo album dei Pink Floyd. A mutare, in questo caso, è la maggior libertà - non condiziante comunque un rispetto quasi reverenziale - con la quale gli autori si rapportano all'opera di partenza: dei quasi 200 brani firmati dai Beatles ne sopravvivono effettivamente poco più di 30, ma è attraverso quella musica e, soprattutto, quelle parole, che l'azione e le reazioni dei protagonisti prendono forma. Esplosione di colori e fotografia denaturata si alternano, a seconda delle differenti situazioni mostrate (l'arrivo a New York, gli scontri di Detroit, la parentesi del ritorno in Inghilterra), per la ricostruzione di un periodo che non può non far riflettere anche sul nostro oggi: "Nothing's gonna change my world", dicevano Lennon e McCartney nella canzone che dà il titolo al film e che, nello stesso, accompagna uno dei momenti più commoventi. Era il loro ultimo album in studio, Let it Be, del 1969. I Beatles si sarebbero sciolti un anno più tardi, il mondo da allora non è ancora cambiato. Il cinema prova a ricordarcelo.
Curiosità: i cantanti Joe Cocker e Bono Vox si concedono in un cammeo, il primo cantando Come Together, l'altro nei panni del sedicente Dr. Robert, poeta cantante beat; l'attrice Salma Hayek (già Frida nel precedente film della Taymor) è la seducente infermiera "multipla" nel delirio post Vietnam del reduce Max.