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Across
Una scout alla ricerca di Dio. Da Torino all’Asia, dalla Sacra Sindone fino alla Cambogia. Una giovinezza errabonda, inqiueta ma fiduciosa, un viaggio sinonimo di ricerca di senso per lo spirito.
Irene Dorigotti - protagonista, screneggiatrice, regista e co-produttrice al primo doc (italo-svizzero) in anteprima alle Giornate degli Autori– si muove dall’Italia fino alla fine del continente asiatico.
Col mandato familiare – il nonno pioniere degli agenti di viaggio, il padre scout- di rompere confini, annettere altri orizzonti, altro visibile, la protagonista mira sempre un altrove, come scoperta di altri popoli, mondi, alla ricerca, sempre, di una connessione con Dio. Un Dio che guida e che sfugge, che si annuncia e si fa presagire, che lascia la sua pellegrina in balia della nuda maestosità della Natura.
Brioso, perfino leggero romanzo di formazione e road movie “spirituale” (parola della stessa regista), fiorisce su un certo sottobosco cinematografico e si srotola a partire da un’unica insoddisfatta, elementare convinzione: l’essere umano per definirsi in quanto tale, ha bisogno di incontrare il divino.
La regia per lo più statica, sempre lucida e semplicissima, diventa la confezione formale per almanaccare peregrinazioni, annessioni, visioni, scoperte. Dagli sguardi in macchina ai campi lunghi, tutti i piani visivi, nel loro implicito, sovrasenso mistico, non trascurano mai un’estetica rigorosa, qui e lì anche una geometria formale delle immagini.
Across, ovvero attraversare, per una vita interiore scolpita dagli incontri, dai sincretismi, dai smarginamenti di panorami che l’occhio umano riesce a contenere. Come i temi, così lo stile: ecco, allora, home movies in abbondanza per riprendere il privato, le confessioni (in chiesa con il prete); poi camere a spalla e campi lunghissimi per definire l’umano minimo nell’infinita maestosità della Natura.
In bilico tra stupore e umorismo – pregevole, benché non nuova, la trovata di rendere Dio autoironica voce narrante -, Dorigotti si affida al suo gusto antropologico per la scoperta, alla curiosità esplorativa cercando nella Terra un contatto mistico con Dio (gli aironi in acqua e in volo nel cielo).
La polifonia intimista, nel suo studio visuale, nella sua visione aggregante, proteiforme, si definisce in più piani intepretativi (la regista che riprende sé stessa attrice che si vede recitare) con un senso di speranza verso la maturità, come scioglimento dei dubbi.
Il cinema, dunque, diventa memoria dello spirito, testimonianza pubblica del riproducibile e visibile. Come fulcro alla dispersività di una connessione ultima e permanente tra umano e divino, con una sicurezza spaziale che metta fine al vagabondaggio esistenziale.
Un film che più sulla religione, ruota intorno al concetto di sacro, alle sue evoluzioni e slittamenti di senso, presentandosi in fondo, senza volerlo, come un breve campionario sui modi occidentali e orientali di rappresentarlo, sui sensi che culture diverse assegnano a rituali uguali e diversi, e alle stesse, insoddisfatte domande.