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Sotto un rigidissimo coprifuoco il palestinese Salah cerca di attraversare il confine israeliano per dare sepoltura al cardiopatico figlio neonato Omar, il cui cadavere trasporta in un borsone. Il caldo torrido rende più impietosa e disperata l’operazione, ma è sopra tutto l’indifferenza, se non l’aperta ostilità, che accoglie la missione dell’uomo a lasciare il segno: solo Miri, donna israeliana single e incinta, saprà farsene carico, costruendo con Salah un rapporto temporaneo ma non effimero, capace di rimettere in campo, nella comune umanità, la speranza.
È Abu Omar, primo lungometraggio scritto e diretto dall’israeliano Roy Krispel, interpretato da Kais Nashif (Tel Aviv on Fire, per cui è stato giudicato migliore attore a Orizzonti di Venezia 2018; Paradise Now; Limbo) e Shany Verchik, in cartellone alla XXV edizione di Tertio Millennio Film Fest.
Produzione franco-israeliana, chiede allo spettatore molto, giacché il luttuoso e frustrato ritorno a casa di Salah è financo insostenibile: il piccolo morto non lo vediamo mai, eccetto che per i piedini rivelati, ma il suo fuoricampo è ancor più dolente, letteralmente osceno. Ne sentiamo l’odore che manda, e la putrefazione è il processo che s’è sostituito alla democrazia, ovvero alla pietas.
E, sia chiaro, non è che la risoluzione di Salah si debba autisticamente allo strazio di un padre orfano di figlio, ma sta nell’ordine malato e colpevole delle cose: al più potrebbe far ritorno in ospedale, al più potrebbe far seppellire Omar in terra straniera, al più… non esiste cordoglio. Solo Miri vorrà com-patire, cercare una strada oltre i posti di blocco, invero non solo geopolitici, rischiarando con gravità e tenerezza “la tragedia umana – dice Krispel – che si verifica ogni giorno in Israele”.
Interpreti formidabili per comprensione e sottrazione, regia asciutta ma empatica, Abu Omar si scopre un po’ lasco e macchinoso nel finale, ma senza inficiare il proprio valore di monito civile e canto umano.