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Ab urbe coacta
Mauro Bonanni, detto “Barella”, gestisce uno sfascio (un’autodemolizioni) a Tor Pignattara. La quotidianità è fatta di ubriaconi e cardiopatici sdentati, oltre che dal continuo “interscambio” con dipendenti e vicini extracomunitari. Spesso bersaglio della volgarità e di una contraddittoria forma di razzismo da parte di Bonanni, ma al tempo stesso portatori di una cultura e depositari di una tradizione che continuano ad affascinarlo. E per ritrovare l’umanità ingabbiata dentro la prigionia capitolina, Bonanni decide di tornare a Cotonou, in Benin, lo stesso luogo dove anni prima aveva condiviso un viaggio con un dipendente proveniente da quelle terre.
Il disprezzo e la fascinazione. Si muove sull’incontro di questi due territori apparentemente inconciliabili l’opera prima di Mauro Ruvolo, Ab Urbe Coacta, one-man-project che ha visto l’artista in prima linea per riprese, montaggio e musiche, in concorso alla 34.ma edizione del Torino Film Festival nella sezione TFFdoc/Italiana.doc.
Mauro Bonanni, detto Barella, in Ab urbe coactaSeguendo da vicino, e senza un’apparente cronologia temporale (lo vediamo una volta con i capelli poco curati, poi rasati, poi di nuovo con il taglio precedente), le giornate di Bonanni, Ruvolo prova ad entrare - anche attraverso un lavoro sulle musiche che cerca il risvolto ipnotico - nel cuore di un substrato umano e ambientale che fa del disagio il suo portabandiera. Tuttologi e nostalgici si alternano nelle discussioni e negli incontri quotidiani dell’uomo, vecchie fotografie e immagini sgranate lo riportano indietro nel tempo, i circuiti motociclistici lo ingannano di poter correre ancora verso chissà dove.
Ma è solo lontano da tutto quello che l’ha sempre circondato che Barella sembra potersi riappacificare. Con il mondo, e con se stesso. Un’operazione interessante, quella di Ruvolo, che rientra nel filone di quel cinema-verità – ultimamente molto battuto, a dire il vero… - interessato a scendere nei sotterranei di periferie (e persone) spesso dimenticate.