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A WHITE WHITE DAY - SEGRETI NELLA NEBBIA
Il “bianco, bianco” è quello che avvolge una remota, gelida cittadina islandese. Un’automobile cade giù per la scarpata. Capiremo solo poco più avanti che al volante c’era la moglie di Ingimundur (Ingvar Sigurdsson), poliziotto ora in congedo che durante questo periodo di lutto trascorre gran parte delle giornate con la nipotina Salka (Ída Mekkín Hlynsdóttir) e, di tanto in tanto, cerca di risistemare la vecchia casa di famiglia.
Quando viene ritrovata una scatola con alcuni effetti personali della moglie, Ingimundur inizia a sospettare che lei lo tradisse con un uomo del posto. La ricerca della verità diventa ossessione e inevitabilmente l’uomo finirà per mettere in pericolo se stesso e i propri cari.
Opera seconda di Hlynur Pàlmason (alla Semaine di Cannes 2019 e vincitore del Torino Film Festival lo stesso anno), A White White Day si propone di mimetizzare atmosfere, suoni, musiche (notevolissime, firmate dal britannico Edmund Finnis, violini e viole strazianti) con l’incedere sincopato di una narrazione che segue lo spaesamento emotivo di un uomo che anziché trovare conforto nei suoi ricordi tenta in ogni modo di sabotarli, roso dal dubbio di un’ipotesi di tradimento che ne mortifica tanto il presente quanto i trascorsi.
A WHITE WHITE DAY - SEGRETI NELLA NEBBIAA suo modo Pàlmason ragiona sul mistero dell’esistenza, sugli aspetti imprevedibili della natura (i massi lungo la carreggiata, le frane che impediscono l’accesso in galleria) e della natura umana: il personaggio di Ingimundur rimette in gioco le sue convinzioni, la rabbia repressa rischia di portarlo lungo il sentiero della disumanità, ogni situazione – in apparenza anche quelle che non prevedono l’incombenza di chissà quale minaccia – viene restituita sullo schermo con un carico di tensione inusuale.
“In quei giorni dove tutto è bianco e non c'è più alcuna differenza tra la terra e il cielo, allora i morti possono parlare con noi che siamo ancora in vita”.
In fondo lo spiega bene l’Anonimo in esergo al film, Ingimundur si ritrova inghiottito nell’accecante biancore che rende quasi impossibile distinguere i contorni delle cose. Perché come dice il regista stesso, il film ruota intorno a due tipi di amore, “l’amore che hai per i tuoi figli o nipoti, che è semplice, puro e incondizionato e poi un altro tipo di amore, un amore che hai per il tuo partner, il tuo amante o moglie. È qualcosa di completamente diverso, è più complesso, intimo, animalesco, qualcosa di unico che non hai con nessun altro”.
Quell’amore che non può interrompersi con la morte della moglie, ma che Ingimundur pensa di poter mettere in discussione sperando di scoprire cose che non conosceva sul suo conto. Ma a quale costo? E, soprattutto, a quale scopo?
Pàlmason non ricorre a flashback, la presenza della moglie nel film è costante grazie all’esistenza del marito, all’odore delle sue cose rimaste, noi spettatori immaginiamo lei attraverso le sensazioni che tiene in vita Ingimundur, fino a riuscire a visualizzarla in quel bellissimo, commovente finale che riappacifica l’uomo con il suo ricordo. Una visione, finalmente nitida, che restituisce carnalità ad un’idea fino a quel momento fantasmatica, intangibile seppur presente, che la rabbia di un’inutile vendetta avrebbe rischiato di deturpare per sempre.