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“Parlare è fico”. Parlare, non scrivere. Perché “scrivere è fantastico ma parlare è meglio”, se vuoi rivendicare il tuo diritto a una parola incensurabile, innegabilmente presente, incancellabilmente viva. A Voce Alta racconta come un gruppo di giovani riscopra il potere e il piacere della parola in occasione del concorso “Eloquentia”, un torneo di oratoria che dal 2013 si tiene ogni anno all’Università di Paris 8.
Siamo a Saint-Denis, periferia Nord di Parigi, una zona difficile cui siamo abituati ad associare delinquenza, droga e radicalizzazione. Il documentario di Stéphane De Freitas (uno dei fondatori del concorso) e Ladj Ly ci fa vivere la preparazione alla competizione di un gruppo di universitari, prevalentemente figli di immigrati: tra corsi di oratoria, slam poetry, espressione scenica e respirazione questi ragazzi parlano, declamano, rappano, gesticolano. Ognuno ha il suo punto di vista, ognuno qualcosa da dire, ma soprattutto tutti vogliono celebrare la parola e la libertà d’espressione. E che bella questa Francia multiculturale che, ferita, manifesta l’esigenza di confrontarsi con le armi dell’intelletto!
A Voce Alta non si lascia incantare da vuoti giochi di parole o da virtuosismi eccessivi, qui la parola è intesa nel suo senso più nobile: ci sono contenuti, emozioni e rivendicazioni.
“Se in certi momenti della mia vita avessi avuto la parola giusta al momento giusto avrei potuto cambiare il corso della mia vita”, afferma Elhadj Touré, uno dei ragazzi la cui storia viene seguita più da vicino dalla telecamera mai invadente di De Freitas.
Elhadj racconta i suoi anni di vita per strada, in attesa di un nuovo alloggio per la sua famiglia, clandestina, e la sua è una delle storie più toccanti. Poi c’è Eddy, franco-tunisino, che ogni giorno per andare all’università percorre 20 chilometri a piedi e ritrova il piacere di schiarirsi le idee al ritmo dei propri passi, ma anche Leila, di origini siriane, combattiva quanto riservata, che non riesce a ingoiare le ingiustizie subite dal popolo dei sui genitori.
Per quanto il documentario segua una struttura tradizionale, è animato dall’innegabile elettricità della riscoperta di una parola dialogante e individua al suo interno dei personaggi forti con delle storie interessanti e, nel caso particolare di Leila, con un evidente sviluppo on camera. I discorsi dei ragazzi diventano una “sceneggiatura” raffinata e divertono più di tanti script: questi giovani sono brillanti, vivaci, animati dalla gioia di esercitare la parola come divertimento e come scoperta di sé, come espressione spontanea ma anche come disciplina necessaria per una vera libertà di pensiero e di azione.
L’attenzione è tenuta alta dalla suspense con cui lo spettatore attende l’esito del concorso, secondo una modalità che si avvicina a quella del reality show, ma la competizione qui rimane decisamente in secondo piano, superata dal piacere del confronto e della condivisione di un’esperienza.
In un movimento circolare, A Voce Alta si conclude con quel prendere fiato che precede l’elocuzione, con la tensione e l’emozione che anticipano di un istante il pensiero che si fa suono. Di bei discorsi ne abbiamo sentiti tanti nel corso del documentario: quando Ouanissa prende fiato, lo fa per noi. Sta a noi ora riprenderci la parola, quella parlata, che viene dal cuore ma passa per la testa, quella per cui ci si mette la faccia.