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A Touch of Sin
Un altro inizio folgorante. Un uomo in primo piano gioca con un pomodoro, alle sue spalle c'è un camion ribaltato. Un altro su una motocicletta in mezzo a una strada di montagna viene attaccato da tre tipacci con delle mannaie. Impassibile si mette la mano in tasca e tira fuori la pistola: ne stende due. Il terzo scappa: implacabile lo insegue con la canna tra i denti. Ha breve vita anche l'ultimo. San'er (questo il suo nome) continua il suo viaggio itinerante, passa accanto al luogo dei pomodori rovesciati. Intanto è arrivata la polizia, c'è un morto e Dahai (quello della scena iniziale) continua a giocherellare, mentre alle sue spalle esplode qualcosa. Non è casuale il titolo del sorprendente A Touch of Sin di Jia Zhang-Ke, regista di Still Life e altri bei film, in cui la violenza fa da collante a un racconto documentato e reinventato sulla Cina contemporanea. Quattro personaggi in diversi periodi e regioni cinesi ammazzano o sono ammazzati brutalmente, picchiati e umiliati fino all'inverosimile.
E' la società di oggi, spiega Jia Zhang-Ke che, colpito dalla mole di fatti inquietanti postate su Weibo (equivalente cinese di Twitter), ha iniziato a investigare. A recarsi sui posti, a interrogare la gente. Poi si è messo a scrivere la sceneggiatura, cercando dei riferimenti nella letteratura cinese e soprattutto ispirato da La foret des Sangliers, un'opera di Pekin che è stata portata sullo schermo nel '62 da Chen Huaikai e Cui Wei. E' venuto fuori che la trasformazione rapidissima della Cina ha separato in modo definitivo i ricchi dai poveri, le regioni povere sono diventate ancora più povere e l'ingiustizia sociale insopportabile. Come succede a Shanxi, zona del nordest che il regista cinese conosce bene, e a Dahai che non ce la fa più a sopportare la strafottenza e corruzione dei boss locali. O al giovane Xiao Hui che passa da un lavoro degradante all'altro, senza prospettive né amore. Una Cina da cui non c'è via di uscita. Se non il suicidio.