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A Thousand and One
Che ne sanno due delinquenti di come si cresce una famiglia? Non lo sanno, ma ci provano con tutte le loro forze a cambiare Inez De La Paz (la cantante Teyana Taylor nel suo primo ruolo da attrice, davvero brava) e Lucky (Will Catlett).
Decisa a dare a qualcuno quello che lei non ha mai avuto, Inez rapisce un bambino di sei anni di nome Therry (nel film interpretato da Aaron Kingsley Adetola a 6 anni, poi Aven Courtney a 13 anni e infine Josiah Cross a 17 anni) dal sistema di affidamento nazionale.
Fugge con lui ad Harlem, gli procura dei falsi documenti, gli dà un’altra identità e inizia una nuova vita in una nuova casa alla ricerca di un futuro migliore. Ci riuscirà perché Terry diventerà uno degli studenti migliori della sua scuola, e con ai piedi “un paio di Jordan”, che lei promette di comprargli, potrebbe volare e fare canestro come il grande Michael Jordan (a proposito se non lo avete visto vedetelo: s’intitola Air con Matt Damon, e racconta la genesi del rivoluzionario accordo commerciale siglato tra Nike e Michael Jordan nel 1984).
Ma il salto a New York per una donna di colore, orfana e sopravvissuta ad una dura realtà (cresciuta per strada passando da una casa famiglia all’altra, detenuta nel penitenziario di Rikers Island, rilasciata un anno dopo e costretta a procacciarsi i clienti da sola come parrucchiera perché il negozio non ha più posto per lei) potrebbe non essere così semplice: le origini pesano ed essere madre non è così semplice.
È la storia di A Thousand and One, film d’esordio della sceneggiatrice e regista A.V. Rockwell, premiato al Sundance, un dramma intimo e metropolitano che si svolge nel corso di due decenni in una New York in continua evoluzione. Al centro c’è anche il tema della gentrificazione a cui la Rockwell, newyorkese di origini giamaicane cresciuta nel Queens, ha assistito in prima persona. La città cambia: dal 1994 quando il sindaco Rudy Giuliani prometteva di reprimere il crimine e infrazioni meno gravi come saltare i tornelli e attraversare la strada fuori dalle strisce pedonali, prendendo spesso di mira le comunità emarginate, al 2001, anno in cui la città ha intensificato la sua politica di “fermo e perquisizione”, che autorizzava la polizia a perquisire qualsiasi persona ritenuta sospetta fino al 2005 quando le politiche del sindaco Michael Bloomberg hanno innescato importanti cambiamenti socioeconomici nel tessuto di New York alimentando ulteriormente la gentrificazione e minacciando quartieri storicamente neri come Harlem. Sottotraccia c’è tutto questo e non è poco perché è proprio questo a differenziare il film della Rockwell dalla solita storia stravista.
La regista, sulla scia del suo acclamato cortometraggio Feathers del 2018, su una giovane studentessa nera vittima di bullismo in una scuola maschile, e ispirandosi a maestri quali Martin Scorsese e Spike Lee, scrive un lungometraggio che fa luce sulle difficoltà delle donne di colore. Ne esce fuori un’odissea moderna con protagonista un’eroina dei nostri tempi, di quelle che si vedono poco sul grande schermo. Il ritratto di questa combattiva, una criminale motivata dal cuore d’oro, che persegue la sua causa “nobile”, indifferente alla moralità e decisa a tirare fuori dall’angolo un bambino perché “non ti ho messo io lì, ma ti ci ho trovato”, unito al racconto dei notiziari e dei giornali delle strade e delle periferie di una New York che si trasforma, seppur un po’ troppo lungo, alla fine fa centro.