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A Real Pain
A prima vista, Jesse Eisenberg sembrerebbe l’ultimo erede di una tradizione, quella degli ebrei newyorkesi, che lui esprime attraverso un tipo umano sospeso tra l’impaccio sociale e la loquacità ansiogena. Che in A Real Pain, sua opera seconda passata al Sundance Film Festival e presentata in concorso ad Alice nella Città, si cristallizza ancora di più in una versione tormentata, apparentemente meno disponibile all’umorismo: il nipote di emigranti europei che si scopre ossessionato dalle radici, dalla riappropriazione di una patria negata dalle leggi razziali, dal bisogno di mettere ordine tornando all’origine del trauma.
Lo dice il titolo stesso: a real pain ovvero un dolore “vero”, come quello che Eisenberg porta in scena nelle sue migliori sortite, dal capolavoro fondativo The Social Network alla splendida miniserie Fleishman a pezzi. E che qui è proprio il suo personaggio, un onesto e retto padre di famiglia, a mettere in campo ovvero in discussione: “tutti abbiamo un dolore”, dice durante una cena che si rivela banco di prova per i nervi e le rimozioni, ma forse il suo è più “piccolo” quindi sopportabile rispetto a quello altrui.
Del cugino, per esempio, nato a pochi giorni di distanza da lui e dunque un fratello de facto, un ammiccante ed empatico chiacchierone (nella raffica di frasi a effetto segnaliamo: “I soldi sono l’eroina delle persone noiose”) con cui si mette in viaggio dall’America alla volta della Polonia. L’intento è compiere un pellegrinaggio fino all’ultima casa abitata dalla nonna – se l’è fatto promettere in punto di morte – prima di emigrare e sfuggire così all’Olocausto. Si vogliono bene, è evidente, ma c’è qualcosa tra di loro che è più faticoso di un semplice non detto.
A Real Pain racconta il riavvicinamento tra due persone ferite che hanno bisogno di una cura, che cercano l’uno nell’altro le risposte a domande che nessuno ha mai avuto il coraggio di porre. Di questo road movie in cui si usano molti mezzi di trasporto, dagli aerei ai treni passando per i van e i piedi, Eisenberg è anche sceneggiatore e, ancora una volta dopo il mirabile esordio Quando avrai finito di salvare il mondo (uscito in Italia solo on demand), si dimostra interessato a esplorare le dinamiche di famiglie in deficit di comunicazione.
La serietà dell’impianto si riverbera in un viaggio che rifiuta le derive di quel turismo di massa che non risparmia luoghi come i campi di concentramento (sulla mercificazione della memoria si può recuperare Austerlitz di Sergei Loznitsa) e i cimiteri (fondamentale l’apporto del polacco Michał Dymek, autore di una fotografia tenue). Il piccolo gruppo, che accompagna i protagonisti nel cammino, è sensibile e dimesso (c’è anche la rediviva Jennifer Grey), la zelante guida abita una sottotrama in cui capisce che esiste un modo più caldo per trasmettere informazioni (Will Sharpe per la quota umoristica) e così il silenzio di fronte a “ciò che è stato” non è telefonato né estemporaneo ma aiuta a innescare rivelazioni e riflessioni personali ancorché collettive.
E se Eisenberg si concede una sola, grande scena madre con un esplosivo monologo antiretorico comunque funzionale alla trama, il vero fuoriclasse è Kieran Culkin, straordinario nel passare in pochi secondi dall’euforia alla depressione, slanci avventurosi e calate negli abissi. Indimenticabile il suo primo piano finale, struggente perché, dopo la promessa del cambiamento, ricorda la circolarità della vita e cosa sia un vero dolore.