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A proposito di Davis
New York, Greenwich Village, 1961. Anni di trapasso. Tempo di mezzo. L'America è uscita da due guerre, mondiale e Corea, e non è ancora arrivato il periodo vulcanico delle lotte contro il Vietnam e per i diritti civili. Llewyn Davis, con faccia e voce dell'ottimo Oscar Isaac, ha sbagliato anni. Fa il cantante folk, fa freddo, non ha soldi, dorme da amici, ogni giorno cambia casa e divano. Ha messo incinta un'amica, la spassosa Carey Mulligan, che comunque si mette subito con un altro, Justin Timberlake. Va, senza risultati, a Chicago con il grande e grosso John Goodman. Torna a New York, il tizio che l'aveva pestato all'inizio lo pesta anche alla fine e i Coen non cambiano neppure le inquadrature.
Unica consolazione potrebbe essere un gatto rossotigrato che scappa (ma sa ritrovare tranquillamente la strada di casa): si chiama Ulisse ed è il miglior gatto cinematografico ex aequo con quello del Lungo addio. C'è, nel film, l'amorevole malinconia che i Coen riservano ai loro eroi. E c'è quell'umorismo con cui li guardano, uno per uno, dal Lebowski in vestaglia al supermercato che assaggia il latte direttamente dal cartone, al serious man professore di fisica che riempie la lavagna di formule ma non sa cavarsela con la moglie e l'amante di lei ebreo ortodosso, il fratello e la ciste sebacea, la vicina nuda al sole nel giardinetto.
Malinconia e umorismo. Più malinconia e musica che umorismo. E quello stile trattenuto nel raccontare e nel mostrare. E la scelta di un'atmosfera e di una fotografia da perenni mezze stagioni, intonate al personaggio e alla sua filosofia esistenziale del come va va. Llewyn vive una vita di eterni ritorni e circolari peregrinazioni. Le cose non gli sono favorevoli ma è anche lui a non volere che lo siano. È un perdente come tanti nel cinema di allora: lo è per scelta, ama l'inettitudine e l'oscurità, aspira al purismo nell'arte musicale, scivola volentieri verso l'autodistruzione. I Coen insaporiscono con le colpe ataviche della tradizione ebraica il rivisitato mito greco di un naufragato ulisside senza reggia e senza donna: e regalano a Llewyn quello che la vita non gli dà, la tenerezza.
Non è lui a cambiare la musica folk. Mentre le prende fuori dal locale, dentro, a cantare, c'è un certo Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan. Llewyn, a Chicago, ha cantato la sua ballata, nella penombra, per un produttore che ha tratto le solite conclusioni: non si fanno soldi con questa roba. Llewyn lo sa, non si aspettava un'altra risposta, prende la chitarra e ricomincia a girare da un divano all'altro. I Coen dolceamari rendono onore, alla loro maniera, a tutti i Llewyn Davis che in ogni tempo e in ogni luogo hanno sbagliato, per un pelo, luoghi e tempi.