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Uno sguardo verso l’alto, il cielo che si mescola con gli alberi. È interessante vedere come due film appena “usciti” inizino allo stesso modo: Evil Does Not Exist di Ryūsuke Hamaguchi e A passo d’uomo di Denis Imbert, tratto dall’autobiografia di Sylvain Tesson. Il primo (bellissimo, premiato alla Mostra di Venezia) si apre con un lungo carrello, una soggettiva di un guardiano della foresta, pronto a difendere il suo spazio dall’invasione di un intruso. Il secondo ha un forte spirito ecologista. Segue le orme di Thoreau, del suo vivere lontano dalla città. Si parla della rinascita che avviene attraverso il cammino, i lunghi sentieri che si snodano nella parte più selvaggia della Francia.
Il protagonista, con il volto di Jean Dujardin, nel film si chiama Pierre, ma nella realtà è Sylvain Tesson. Scrittore, anima errante, negli ultimi mesi lo avevamo incontrato anche nell’ispirato documentario La pantera delle nevi, alla ricerca di un animale sospeso tra leggenda e verità. Anche in quel caso, il tema portante era quello dello sguardo. In una fotografia, il predatore compariva in secondo piano, e poteva essere colto solo da un occhio attento. L’invito era di non fermarsi alle apparenze, di andare oltre la superficie. Come anche in A passo d’uomo.
È un flusso di coscienza, con la voce fuoricampo che scava nell’identità di Pierre. Lo scontro è tra sogno e dinamiche quotidiane, razionalità e illusione. Pierre è tormentato, è un talento fuori dal comune con la penna, ma anche quando si tratta di bere. Si deve riprendere da una brutta caduta, ma deve anche capire quale direzione dare alla sua vita. Pochi dialoghi, tanta marcia: sono queste le regole di una storia in cui, come sempre, il viaggio si sviluppa sia all’esterno che nel cuore di Pierre. A passo d’uomo è diviso in tappe, che sembrano dei brevi episodi. A ogni chilometro arriva una nuova consapevolezza. La fatica si mescola alla redenzione.
“A metà strada tra il desiderio e il rimpianto, c’è un punto chiamato presente; bisognerebbe allenarsi a stare proprio lì, in equilibrio, come i giocolieri”, scrive Tesson in Nelle foreste siberiane. Forse è proprio questo il significato di A passo d’uomo: catturare il presente, con tutte le sue insidie. L’unica soluzione che viene proposta dal regista Imbert è di lavorare sul qui e ora. I flashback dedicati al passato rappresentano occasioni perse, amori falliti. Il domani è troppo fumoso per essere individuato. Resta il presente: i passi incessanti verso la meta, la scalata verso un obiettivo sconosciuto.
Dujardin si immerge in un’interpretazione silenziosa, fatta di espressioni sottili, di rari scambi con altre persone che condividono parte del tragitto. Il suo Pierre è dolente, malato, ma non si abbandona alla disperazione. Forse anche lui cerca “la pantera delle nevi”, segue le tracce dell’impossibile per convincersi che possa esistere la salvezza. A passo d’uomo è un film quieto, e racconta un conflitto interiore che ci coinvolge tutti.