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A Little Closer
Virginia, oggi: Sheryl, madre single e desiderosa d'affetto, e due figli, Marc di 15 e Stephen di 13 anni. E' il triangolo della normalità messo in scena dall'americano Matthew Petock, che ne segnala le geometrie variabili sin dal titolo: A Little Closer.
E' in Concorso a Torino, e potrebbe vincerlo: non succede quasi nulla, l'evento più eclatante è in apertura, con l'occhio di Stephen che finisce (quasi) trapanato dal fratellone. Poi, è l'amore - meglio, i succedanei dell'amore - a prendere campo e tenere banco, senza voli pindarici né salti iperbolici: Marc si fa la ragazza, e studia a tavolino le mosse per farsela in un altro senso; Stephen s'invaghisce della sua insegnante di scuola estiva; Sheryl, dopo qualche giro a vuoto in un luogo di ritrovo per senza speranza, trova lo zotico buono per una notte. E questi tre percorsi affettivi - e anaffettivi - si guardano allo specchio, convivono, come altrimenti?
Stephen tira i sassi con i compagni - da quanto non lo vediamo in un film italiano? Eppure, è normale, no? -, Marc lavora e si dà da fare, Sheryl barcolla ma non molla: è una famiglia come tante, ma raccontata come non molte altre. Zero filtri, zero sovrastrutture, zero caramello e zero climax (Gus Van Sant non avrebbe mollato il trapano tanto presto…), ma tre esistenze colte nel loro farsi (comune), senza temere il “poco”, il “noioso”, il “non succede nulla”.
E' cinema indie, soprattutto indipendente dalle logiche del the show must go on: qui lo spettacolo nemmeno inizia, ma A Little Closer si avvicina a qualcosa di più prezioso. La vita.