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A letto con Sartre
In una cittadina portuale del nord della Francia il malavitoso Jeff (François Damiens) si invaghisce di una cassiera e chiede al fratello adottivo Neptune (Ramzy Bedia) di farle recapitare le poesie strampalate che scrive per lei.
Contestualmente, altri due scagnozzi dell’uomo (Bouli Lanners e il rapper JoeyStarr) sono incaricati di convincere (non proprio con le buone) compagne e compagni della figlia adolescente del capo a prendere parte alla sua festa di compleanno.
Il quadro si completa con Jacky (Gustave Kervern), dapprima impegnato a riscuotere qualche migliaio di euro dall’ex contabile del boss per poi ritrovarsi al fianco della compagna di questi (Vanessa Pa radis) a recitare in una stramba pièce su Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvior.
Samuel Benchetrit esce dal Condominio dei cuori infranti (2015) e – dopo la parentesi Chien (2017) – si porta in riva al mare: l’alienazione urbana e circoscritta dalle mura di quel palazzo trova l’aria aperta ma la cifra di malinconico nonsense e fiera dell’assurdo resta salda.
Come non mutano molti degli interpreti di allora, dal già citato Kervern a Valeria Bruni Tedeschi (qui la moglie trascurata del boss), fino a Jules Benchetrit, figlio del regista e della compianta Marie Trintignant, qui nei panni del “duro” Rudy, ragazzino di cui è innamorata l’impacciata Jessica (Raphaëlle Doyle), figlia di Jeff.
È “una musica che non suona per nessuno”, come evoca il bel titolo originale del film (Cette musique ne joue pour personne), un po’ penalizzato dall’italiano A letto con Sartre (in Cannes Premiere nel 2021) che, ovviamente, si focalizza maggiormente sulla centralità di quella folle riduzione teatrale e sulle derive poetiche della narrazione tutta: in fondo Benchetrit cattura la quotidianità di personaggi abituati a regolarsi tramite la violenza che, poco a poco, imparano a relazionarsi con il prossimo attraverso altri canali, siano quelli della poesia o dell’amore.
Certo, le situazioni non sempre reggono il peso di un esistenzialismo portato allo stremo, ma il modo in cui lo scrittore-regista francese di origini marocchine – ancora coadiuvato da Gábor Rassov in sceneggiatura – tenta di far dialogare il male di vivere e le pulsioni sentimentali con la rievocazione della liaison tra Sartre e Simone de Beauvior, incastonando il tutto in un divertissement triste, riesce a regalare più di un momento degno di nota.
“Le forme e i colori nascono nelle tenebre”, d’altronde, ed è proprio questa continua ricerca del senso dell’esistenza - meglio se in alessandrini - che a volte sembra ricondurre il film sui lidi delle commedie del maestro svedese Roy Andersson, senza il ricorso ai tableaux vivants che ne caratterizzano l’opera (vedi gli ultimi Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza e Sull’infinitezza), ma attraverso la costruzione di tenere attese e improvvise ripartenze (“Un'altra pièce o un'altra vita?” – “Beh... è la stessa cosa, no?”).
Come lì, verso il finale, quando dall’auto inizia a sentirsi la voce roca di Arno, cantautore belga morto lo scorso aprile, e la sua struggente e surreale Lola, etc.: “Au bord de la Volga / J'ai rencontr Olga...”.
E quel ballo conclusivo, avvolto nel blu delle luci di un night, che - chissà per quanto ancora - tiene unite le quattro coppie che il film ha visto formarsi, in un caso ritrovarsi.