PHOTO
Giulio Base in À la recherche
“Non ci riesco, ho sempre saputo che non ci sarei riuscito. Conosco e amo talmente questo libro che non posso permettermi di portarlo sullo schermo con il rischio di banalizzarlo, rendendolo altro. Sono diventato quello che sono con quelle pagine, con la voce di mia madre che me le leggeva...Non sempre le cose migliori sono quelle realizzate”.
1974. Luchino Visconti, dopo tre anni di slanci e tormenti intorno a À la recherche du temps perdu di Marcel Proust, abbandona l’idea chimerica trasformare il libro del secolo in film.
Troppi i costi, i rischi, gli imprevisti, gli abboccamenti, gli attori contattati e spariti. Troppa soprattutto la reverenza verso “la cattedrale letteraria dell’Occidente”. Il regista di Senso intuì “che tutti i proustiani sarebbero stati col fucile puntato”, parola di Enrico Medioli – Suso Cecchi D’amico conserva un’altra versione del gran rifiuto, ma questa forse è un’altra storia –, fido viscontiano che firmò con Enzo Siciliano un trattamento di 30 pagine dal libro non filmabile per eccellenza.
Dove hanno fallito i due sceneggiatori, Visconti, Medioli, Cecchi D’Amico, e prima di loro Clement, Flaiano, Harold Pinter e Losey, tenta Pietro (Giulio Base), sceneggiatore dai grandi ideali di gioventù svenduti nell’età adulta: cresciuto nel mito del regista di Rocco per sopravvivere, firma sotto pseudonimo commediuole erotiche e B-movies.
L’occasione della vita gli arriva, appunto, da Ariane (Anne Parillaud, la Nikita di Besson), un tempo attrice di grido, ora sul viale del tramonto. La donna lo incarica di scrivere il trattamento perfetto da À la Recherche per convincere il venerato Visconti a girare il film del secolo, congelato per mancanza di fondi e convinzione. Serve una sceneggiatura epocale, che per Pietro, inutile dirlo, significa rivalsa e risarcimento danni dopo decenni di umiliazioni, negazioni, compromessi e svendite di sé.
Riflettori, dunque, non sulle star, ma sui loro gregari: anonimi mestieranti dalle passioni purissime, professionisti di talento sfruttati, masticati e sputati dalla macchina dei sogni. Un microcosmo suadente eppure cinico, elitario e popolare. Un cinema che è favola e dramma, poesia e miseria. Che costringe a prostituzioni sentimentali, politiche, sociali: dalla radio, dai giornali rimbalzano nel villino di Arianne, il buen ritiro sui Castelli Romani dove si sono rinchiusi i due per scrivere, il Watergate e Cannes. La lotta di classe e D’Annunzio.
Tra speranze svanite e differenze di classe, la madeleine cinematografica di Base, però, è soprattutto bussola per lo scandaglio intimista, per la microscopia riflessa di sogni abortiti. Nel duello attoriale così sovraeccitato perché accorato, nel meta-film (anzi nella meta-sceneggiatura di uno dei più bei film mai realizzati) si insinua inesorabile il privato, il rimosso angoscioso, la gretteria meschina, come manipolazioni e devastazioni affettive .
Sono soprattutto, ma non solo, quelle di Arianne che seduce e umilia Pietro. Lo blandisce e lo psicanalizza. Un’attrice indipendente, conturbante che, crogiolandosi nel suo passato luminoso, rende lo scrittore scrivano della sua rivalsa, megafono del suo suadente ego.
È proprio in questo testa a testa in crescendo, fisico fino alla brutalità, eppure romantico, tensivo e comico, drammatico e umoristico, silente e verboso che questo Kammerspiel francofono si costruisce una credibilità sia emotiva sia, di riflesso, storica.
Tenendo lontane le luci della ribalta, Base insiste lo smascheramento degli inganni, sulla seduta psicanalitica di un maschile impotente e bestiale, colmo di frustrazione artistica e sessuale, incapace di sedurre, solo di violentare le donne.
L’enorme carico emotivo del film, allora, costruito e rinchiuso nell’unità di luogo, è controllato dall’impianto teatrale e regolato da una certa pulizia e semplicità di stile (i piani-sequenza iniziali per le baruffe più veementi, gli amari primi e primissimi piani finali).
Ne esce fuori un film mitizzante e sentimentale, fatto d’insurrezioni emotive, ma anche artistiche, ideologiche, civili. Colto e retroscenista, letterario e cinefilo, furioso e ammalinconito, intimista ed engagé, tutto imbevuto dell’epica straziante e sbalordente di una chimera luminosa, di un impero di celluloide arrivato all’ultimo giorno di decadenza.
Oggi, come cinquant’anni fa.