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Un eroe senza poema, persino senza storia, se l’americano Gordon Zahn, visitando il villaggio di Sankt Radegund negli Anni Settanta, non l’avesse scoperta. Proprio Radegund s’è chiamato per molto tempo il nuovo film di Malick, che ora approda in Concorso a Cannes 72 quale A Hidden Life, mutuato dal finale del settimo e ultimo romanzo di George Eliot, Middlemarch: “… for the growing good of the world is partly dependent on unhistoric acts; and that things are not so ill with you and me as they might have been is half owing to the number who lived faithfully a hidden life, and rest in unvisited tombs”.
L’eroe misconosciuto è Franz Jägerstätter, un contadino e sacrestano che si rifiutò di giurare fedeltà ad Adolf Hitler – il cui paese natale non era troppo distante da Radegund, Austria settentrionale – e combattere per i nazisti: il 9 agosto del 1943 venne giustiziato in un garage della prigione di Brandeburgo a Berlino.
Scritto da Malick stesso, il film si appoggia allo scambio epistolare – pubblicato - tra Franz (August Diehl, Il falsario) e la moglie – morta a 100 anni nel 2013 - Franziska o Fani (Valerie Pachner), e ne inquadra la vita bucolica, placida e amorosa, allietata dalla nascita di tre figlie: la leva lo porta lontano da casa, ma la resa della Francia fa ben sperare per la fine della guerra. Non sarà così, chiamato alle armi Franz rifiuta di giurare fedeltà a Hitler e il Terzo Reich, nonostante le pressioni dei concittadini, l’avallo del prete e del vescovo, la sofferenza di Fani e dei familiari, e pur consapevole di andare incontro alla prigione e, forse, alla morte. Detenuto prima a Enns e poi a Berlino in attesa di processo, la famiglia sempre più ostile al resto del villaggio, Jägerstätter non conoscerà abiure e tentennamenti, facendo della fede in Dio e dell’amore per la moglie e le figlie le fondamenta della propria decisione: sarà il giudice Lueben (Bruno Ganz alla sua ultima prova), di lì a poco suicida, a condannarlo a morte.
Girato in digitale, location in Alto Adige, Radegund, Berlino e altrove, A Hidden Life ci consegna il Malick ultimo scorso, quello di The Tree of Life, sopra tutto To the Wonder, anche Knight of Cups, ovvero estatico, “filosofico”, cogitabondo e lirico, se non che l’appiglio a una storia realmente accaduta lo costringe, ovvero lo aiuta, a tenere le fila e il filo.
Osservanza baziniana, reminiscenze bressoniane e del Rossellini televisivo e piena adesione al canone malickiano, il regista americano si bea della natura, prati, ruscelli e mucche, tesse i frammenti del dialogo amoroso e carcerario di Franz e Fani, fa un uso smodato del grandangolo, non sottotitola il tedesco – il film è parlato perlopiù in inglese – e canta l’eroe dimenticato o, peggio, mai inteso.
La professione è di fede, Dio e famiglia contro le richieste della patria, e la mancata trinità dovrebbe creare qualche scompenso. Invece no, il film è girato in montagna ma pensato in pianura: non ci sono saliscendi, calma piatta, nonostante la drammaticità dell’accaduto, la voce over – il carteggio – è sempre uguale, brachicardia portami via.
L’obiezione di coscienza di Franz meriterebbe forma altrettanto inaudita, coraggiosa, radicale, financo scandalosa, viceversa, Malick fissa estatico i pascoli, luma la verdura, cincischia tra bambini e pecorelle, prega per gli umiliati e gli offesi, però senza colpo ferire, sprecando quasi l’exemplum di Jägerstätter. Un agreste, pio e amoroso salvaschermo, che però non salva il film.