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A Good Person
È un personaggio interessante, Zach Braff, anima di una serie che ha segnato gli anni Zero (la memorabile Scrubs, in cui era il dottor John Dorian) e autore di un’opera prima, La mia vita a Garden State (2004), tra le più belle e importanti di quel decennio (nonché seminali per definire un immaginario e un apparato di cliché).
Negli ultimi anni, Braff, piuttosto parco come attore, ha continuato a girare, anche per la serialità: ha diretto un episodio di Ted Lasso (ideata da Bill Lawrence, già creatore di Scrubs), il secondo della prima stagione, che ha dato un’impronta a quella bellissima commedia capace di spezzare il cuore ottenendo una candidatura all’Emmy.
Al cinema, invece, ha realizzato una specie di cripto-sequel del suo esordio, l’irrisolto Wish I Was Here, trovato un successo di pubblico con la commedia âgé Insospettabili sospetti (remake di Vivere alla grande) e cercato una via alternativa con A Good Person, sorta di dramedy (più drama che comedy) che risente dell’atmosfera pandemica e costituisce soprattutto un veicolo per Florence Pugh (all’epoca delle riprese anche sua partner) e Morgan Freeman (già insospettabile sospetto). Il carisma dei due sembra essere l’unico punto di forza di un film ben intenzionato ma troppo lungo, che paradossalmente ha il suo fascino nella fragilità.
Pugh è Allison, la cui vita va in frantumi quando viene coinvolta in un devastante incidente automobilistico in cui muore la futura cognata. Sopravvive, quasi suo malgrado dato che cade subito nel baratro della dipendenza da oppiacei, il mondo le pare un posto orrendo e le relazioni normali sono sempre più impossibili. Il tempo passa e Allison si lega imprevedibilmente a Daniel (Freeman), il papà della vittima nonché di colui che ormai è l’ex fidanzato: l’anziano si prende cura della nipote, che sta elaborando il lutto per la morte della madre, e incontra Allison in un gruppo d’aiuto per uscire dalle dipendenze.
Chi è “una brava persona”? Chi decide di non odiare? Oppure chi per senso di colpa cade in una spirale autodistruttiva, convinta che possa essere un sollievo per coloro che stanno soffrendo a causa sua?
A Good Person è un’esplorazione sul dolore che parte dalla morte per toccare qualcosa che afferisce alla sensibilità contemporanea (le dipendenze), che incrocia il dialogo come strumento di supporto con lo spaesamento narcotico, il confronto anche duro con la calata negli abissi, il conflitto con l’egotismo.
Braff si affida molto alla tenuta e alla chimica tra i protagonisti, compiace un po’ quando mette in scena i momenti più al limite, appare qua e là in deficit d’ossigeno perché ogni scena tragica sembra nascondere la commedia che non sa articolare su un tema così ingombrante (eppure Garden State funzionava proprio per questa ragione). Ma non bastano una Pugh consapevole dell’occasione – nonché del pericolo dell’overacting – e un Freeman che fa il Freeman che ci si aspetta in una situazione del genere a dare il giusto respiro in un film che dà il meglio di sé quando si scopre asciutto e vulnerabile, individuando nella fragilità la chiave d’accesso alla storia.