Due sconosciuti, un uomo e una donna, s'incontrano in un cimitero deserto; lei cade, lui la soccorre e le promette che con lui non avrà più nulla di cui preoccuparsi. Così inizia il delizioso arguto e felicissimo piccolo film che il maestro brasiliano Julio Bressane porta quest'anno in Orizzonti a Venezia 65. Parlandosi poco e guardandosi molto, la coppia trascorre giorni di irreale sospensione: prima lei scrive sotto dettatura di lui saggi sui temi più disparati, dalla mitologia ai veleni; poi lui chiede a lei di fare da modella per una serie di foto che ritraggono la ragazza in costume adamitico, insistendo su particolari anatomici, espressioni ammiccanti, pose bizzarre. Poi la comparsa d'un topo sconvolge la vita della coppia provocando conseguenze ben più estreme della morte.
Il sessantaduenne Bressane racconta a un primo livello la difficile relazione tra l'uomo e la donna che in ogni modo cerca di possedere: prima è la mediazione della cultura (il dettato dei saggi, le relative dissertazioni), poi il tentativo d'un possesso attraverso l'oggettivazione della fotografia. Ma il roditore manifesta la sua prima supremazia simbolica insinuando i denti lungo gli scoscesi sentieri dei più intimi recessi erotici della modella, immortalati dalla macchina fotografica: poi, mentre l'ignaro fotoamatore è indaffarato nel piazzar trappole in cerca di vendetta, il topolino ratifica la conquista della donna esplorandone fisicamente il sesso, e ricevendo in cambio il premio della di lei soddisfazione.
L'uccisione del ratto coinciderà con la fine della ragazza: l'oggetto del desiderio interdetto all'uomo che l'ha scelta e accolta, e che è riuscito ad amare solo attraverso il feticcio mediatore del suo riflesso. Che all'uomo interessi più la copia dell'originale - più il doppio, culturale o visivo, che della realtà produce e meno la sua originaria oggettualità - è presto evidente; il finale però spinge il discorso oltre i limiti del consueto. Dopo un'ellissi di tempo indefinita, tutto sembra immutato, a parte il fatto che ogni cosa vivente giace disseccata e spenta attorno al protagonista; compreso lo scheletro della donna, i pochi scarni resti che ne rimangono, oggetto ormai vuoto che l'uomo insiste nel fotografare come prima, cercandone le stesse pose, avvicinandosi con famelica impudenza alle stesse regioni anatomiche ormai lasciate deserte dalla morte. Bressane mostra ancora una volta la sua mirabile arte di cineasta, versata in un film di cinema-cinema, dove le inquadrature mostrano la propria immensa vastità risuonando nello spazio e nel tempo.
A erva do rato compone in un un'ora e venti un'ironica, arguta riflessione non solo sul voyeurismo in quanto tale, ma sullo sguardo consumistico del tempo presente, sull'ossessione del possesso, anche e soprattutto attraverso le immagini, dei corpi e delle identità. Non un capolavoro, ma il misuratissimo e sapiente apologo d'un grande artefice di cinema.