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Timothée Chalamet in A COMPLETE UNKNOWN. Photo by Macall Polay, Courtesy of Searchlight Pictures. © 2024 Searchlight Pictures All Rights Reserved.
È il 1961, la città si muove nel solito inverno newyorkese. Dal retro di una vecchia station wagon, come un’epifania, fa la sua apparizione Robert Zimmermann (sarà il suo vero nome?).
Si presenta agli avventori di un bar del Greenwich come Bobby Dylan.
Arriva da Hibbing, Minnesota, un luogo che sembra partorito dalla fantasia di un cantastorie, come molte altre cose che lo riguardano. He’s not there: ci aveva avvertiti Todd Haynes. Lo aveva cercato invano nel volto di sei attori, tra cui una donna (Cate Blanchett). Lui sempre altrove, blowin’ in the wind. Se non lì, dov’è?
Il fantasma Dylan continua a ossessionare l’immaginario cinematografico americano, come il cavaliere pallido della folk music. Poteva forse non accendere l’interesse di James Mangold, già cantore della musica country e della gesta di Johnny Cash in Walk the Line (Quando l’amore brucia l’anima, in italiano)? E se Johnny Cash, che allora era stato il febbricitante Joaquin Phoenix, cammina di nuovo sulla linea di Mangold, stavolta con gli occhi saettanti e l’amabile strafottenza di Boyd Holbrook, non è solo per ricucire due epoche, due generi, due storie esemplari, ma per demarcare uno spazio Dylan che resterebbe altrimenti completamente sconosciuto. Allora, direte, un altro film sull’enigma Dylan? L’ennesima detection bio-musicale che gira a vuoto, come un giradischi rotto? Dobbiamo seguire un’altra pista.
Dylan arriva a New York. Si immerge nell’atmosfera sbrilluccicante e caoticamente ritmata di una città che è pura energia musicale. Ma il battesimo si può compiere solo in presenza del battezzante. Eccolo accanto a Woody Guthrie, l’idolo morente che il giovane menestrello è venuto a trovare per ricevere la benedizione. La formula che sancisce l’ideale passaggio di testimone non può che essere una canzone: Song to Woody. “Here's to the hearts and the hands of the men/ That come with the dust and are gone with the wind”. La voce di Timothée Chalamet ha la sensualità nasale e il graffio gutturale dell’originale, le sue mani sottili strimpellano note robuste. Questo ragazzo è sbalorditivo. Ce ne accorgiamo una volta di più. È un’epifania che si replica in scena, davanti allo stupore compiaciuto di Guthrie (Scoot McNairy) e del sodale e amico Pete Seeger (uno splendido Edward Norton), quello di If I Had a Hammer e Turn! Turn! Turn! Peter/Pietro diventerà fatalmente il più accanito discepolo del nuovo profeta del folk, e anche colui che lo rinnegherà a tempo debito.
La chiave evangelica non sorprenderà chi conosce il culto di Dylan e le radici spirituali della musica folk. L’importanza della parola, restituita a una comunità di hobo, gli ultimi della grande pastorale americana. La religione Dylan cresce mentre il suo fondatore inizia il suo pellegrinaggio musicale attraverso il Paese, in quattro anni di predicazione che culmineranno in un’altra rivoluzione. È questo un andare, sottolineato dal titolo di lavorazione del film, Going Electric (dal libro di Elijah Wald, Dylan Goes Electric), che non si compie nella frenesia del movimento ma in una traslazione invisibile, misteriosa, interiore. In questo itinerario di parabole cantate non possono mancare torme di seguaci e di donne appassionate e infelici, come Sylvie Russo, eteronimo della Suze Rotolo che fu vera compagna del nostro, che Elle Fanning ricolma di luce e di grazia; e la ben più nota Joan Baez, che duettò con Dylan oltre il proscenio musicale e di cui Monica Barbaro non fa certo rimpiangere carisma e voce. Splendido il momento, sul finale, di It’s All Over Now, Baby Blue, in cui nello spazio di una canzone meravigliosa e magnificamente eseguita da entrambi si condensano vibrazioni e bilanci di una vita, di un amore senza storia. Questa, del resto, è la chiave semplice e trasgressiva che Mangold ha scelto per il suo film su Bob Dylan: non usare la musica per fare cinema ma, al contrario, utilizzare tutti gli espedienti tecnico-stilistici del cinema per restituirne la grandezza musicale. Che, sempre in tema di rimandi evangelici, è un po’ quello che Pasolini ha fatto con la vita di Gesù: filmare la Parola del Vangelo secondo Matteo.
E se l’accostamento può apparire blasfemo, il risultato che Mangold ottiene è comunque divino, perché intuisce che non c’è biografia o finzione che tenga dinnanzi alla potenza del mito, che è mito proprio per la forza di evidenza e persuasione che emana. E allora basta puntellare, raccordare, abbozzare figure e paesaggio, e poi cerchiare di luce lo spazio in cui Dylan/Chalamet si manifesterà davanti a un microfono acceso.
James Mangold e Jay Cocks (sceneggiatore scorsesiano, autore tra gli altri de L’ultima tentazione di Cristo e di Silence) hanno potuto lavorare con un ampio repertorio musicale, oltre quaranta canzoni registrate dal vivo da Chalamet (ma la OS ne contiene molto meno, sic!), pescate in un periodo relativamente breve nel percorso artistico di Dylan, dal 1961 al 1965, dai classici Mr. Tambourine Man, The Times They Are A-Changin' e Don't Think Twice, It's All Right a pezzi meno ascoltati come Girl from the North Country e Mixed Up - Confusion. Sullo sfondo si susseguono i giorni convulsi della storia americana, che entrano con la sordina televisiva nello spazio creativo di Dylan, come se non lo riguardassero, e poi ne escono trasmutati dall’atto poetico che li volge in tracce dell’umano. Le proteste contro la guerra in Vietnam, l’omicidio Kennedy, la crisi dei missili di Cuba (che riecheggia sinistra in A Hard Rain's a-Gonna Fall), la marcia su Selma, vengono riproposti per quello che sono ormai diventate, immagini in bianco e nero, fantasmi che aleggiano nell’inconscio collettivo della nazione. Dylan si muove accanto agli eventi, di fianco al presente, quasi schivandolo, proteso verso quel tempo conosciuto solo ai poeti. Dylan si ripara dall’incombere del contingente più che dai fan che lo riconoscono per strada.
Meravigliosa intuizione quella di aver scritturato il divo/antidivo per antonomasia, Timothée Chalamet (che ha imparato a suonare anche chitarra e armonica), per fargli rifare il più grande divo/antidivo della scena musicale, quel cantastorie che non andò neppure a ritirare il Nobel per la letteratura. Se Bob rimane indietro, nascosto, schermato dai suoi occhiali neri da vampiro, il Dylan di A Complete Unknown è sempre davanti: a un microfono, a un pubblico, al proprio tempo. Fugge nel vento a bordo della sua motocicletta Triumph. Curva dopo curva. Dai coffee house del Village (dal Café Wha al Gaslight) al Gerde’s Folk City, che ospita le sue prime apparizioni importanti, prima come supporter di John Lee Hocker e poi in solitaria. Fino alla contestazione, leggenda nella leggenda, del 25 luglio 1965 al Newport Folk Festival, il più importante raduno della scena folk americana, quando sfida l’arena eseguendo i nuovi brani di Highway 61 Revisited, l’album della svolta elettrica e di Like a Rolling Stone. È lì che si consuma il tradimento. Pete Seeger tenterà addirittura di tagliare i cavi degli amplificatori. E dire che solo un anno prima il songwiter di Duluth era stato accolto con gli osanna che si tributano ai santi.
Ma è in questo passaggio chiave che Dylan muore come gigante del folk per rinascere come entità poetica superiore. Nel piegarsi alle proprie aspirazioni creative piuttosto che alle aspettative dei fan, il Dylan di Mangold, senza essere ridotto a santino, ci offre una limpida testimonianza di libertà, di integrità morale e di purezza artistica, che parla in prima battuta a noi followed e follower del mondo contemporaneo. Ossessionati dalla ricerca del consenso come i più scafati tra i politici, maniacalmente attenti alla propria narrazione, ai like e ai commenti, alle ricorrenze su Google e alle ego chambers di presunti seguaci, mentre tutto intorno la realtà esplode in pezzi di silicio e di guerre convenzionali, non possiamo eludere la domanda: e se i tempi stessero cambiando anche per noi?