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A casa tutti bene (credits: Andrea Miconi/Sky)
Meno Ettore Scola, più Dallas. Spesso, pur con qualche pigrizia, si dice che Gabriele Muccino si muova seguendo i grandi maestri della commedia all’italiana; ma forse è il caso di andare oltre. Perché, con la seconda stagione del reboot di A casa tutti bene, il regista romano sembra piuttosto accordarsi alla tradizione seriale americana: laddove il film trovava nel topos della “riunione di famiglia” lo spazio dove accogliere i suoi personaggi difettosi in attesa della possibile riconciliazione con la vita, con la sua realtà non all’altezza di quel che si sognava da giovani, gli otto episodi della serie rincorrono invece relazioni pericolose, dinamiche inattese, rancori mai sopiti, segreti inconfessabili.
Lasciando che, tra una litigata e un amplesso, i Ristuccia ballino sull’orlo del precipizio, Muccino e l’head writer Barbara Pretonio trovano le coordinate per incrociare l’universo dell’autore con il modello del family drama (già nella prima stagione c’era l’espediente dei flashback caro a This Is Us, altro punto di riferimento).
Come in Dallas, anche qui ci sono un’azienda in crisi (il ristorante, quintessenza dell’identità italiana), un patriarca che tira le cuoia (il fantasma di Francesco Acquaroli, morto nel primo episodio, aleggia come un avvoltoio), una matriarca travolta dagli eventi (Laura Morante, stavolta meno presente ma sempre magnifica), figli senza bussola, ingombrante codazzo di parenti.
C’è molta coerenza nello sguardo di Muccino e, in questo senso, la serie è davvero in continuità con il suo modo di leggere la realtà italiana trascendendo le contingenze dell’attualità ma non l’impatto dei sentimenti. Come ai tempi del rivelatorio L’ultimo bacio (a tutt’oggi un epicentro del cinema italiano, punto di raccordo tra i tanti Vitelloni della nostra storia e gli uomini in fuga di Gabriele Salvatores in un Paese post-ideologico), il regista continua a stare addosso ai personaggi, concedendo loro l’amore che si meritano nonostante gli errori e gli orrori. E, nel solco di Ricordati di me, guarda alla famiglia come uno scannatoio dove l’ipocrisia può essere un collante fintantoché le tensioni deflagrano e creano nuovi precari equilibri.
È naturale che al sovraccarico narrativo ne corrisponda uno emotivo: si urla per dare al dolore l’unica voce possibile, si prova a placare la fame d’amore con abbondanti spuntini di sesso, si convoca la morte perché questo richiede un dramma del genere.
Le linee sono tante, anche troppe: Carlo (Francesco Scianna) ha fatto il passo più lungo della gamba sul piano degli affari, spartiti con l’ex moglie Elettra (Euridice Axen), mentre la consorte Ginevra (Laura Adriani) deve riprendersi dal devastante incidente con cui si chiudeva la prima stagione; Paolo (Simone Liberati), in guerra con l’ex compagna per l’affido esclusivo del figlio, flirta con un’avvocata; Sara (Silvia D’Amico, mai così erotica), vera erede del padre, si allontana dal marito fedifrago (Antonio Folletto) e vive una travolgente passione con un ambizioso e vanesio chef stellato (Tom Webb); il cugino Riccardo (Alessio Moneta), neopapà, si ritrova nei guai con dei criminali e anche la sua compagna (Emma Marrone) si allontana da lui; suo fratello Sandro (Valerio Aprea), malato di Alzheimer, accetta di farsi ricoverare in una clinica, la moglie Beatrice (Milena Mancini) cerca faticosamente di rifarsi una vita mentre la mamma dei due fratelli (Paola Sotgiu) vive il dramma di un macigno sul cuore.
Il coro è eterogeneo, la materia incandescente, il crime (qua e là un po’ posticcio) mangia il mélo: il ritmo è incalzante, d’accordo, ma l’impressione è che a Muccino piaccia così tanto il cinema (con Paolo che “educa” i suoi cari alla visione dei film: torna C’eravamo tanto amati di, guarda caso, Scola, film-totem dell’autore) che, alle prese con una serie, abbia scelto di cavalcarne gli eccessi, la dilatazione e l’accumulo per paura di lasciare vuoti. Come se fosse un esercizio (anche di stile) per non perdere confidenza con i suoi personaggi, un modo per riflettere sul futuro in attesa di tornare davvero “a casa”.