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È passato più di mezzo secolo da quando, a ogni stagione cinematografica, c’era un film girato a Ischia. Era targato Cineritz con storie fatte d’aria, leggere come lo sguardo di un visitatore che sfoglia compulsivamente una foto dopo l’altra, nell’impossibilità di portarsi in Giappone o in Inghilterra il profumo di un’isola unica al mondo.
Erano i racconti vacanzieri di allora, commedie senza ombre per esaltare un luogo magico, di cui Angelo Rizzoli senior era il potente proprietario, almeno dei più grandi alberghi. Il fascino di Ischia è intramontabile, e ha catturato anche Robert Siodmak (Il corsaro dell’isola verde), Billy Wider (Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?) ed Anthony Minghella (Il talento di Mr. Ripley).
Oggi Gabriele Muccino la trasforma nella sua Isola Che Non C’è, il luogo in cui tutto è possibile e i sogni s’infrangono contro le onde del mare. Non la chiama mai per nome, i suoi personaggi la usano come un campo di battaglia, per urlarsi contro e riflettere sui rimpianti, su tutte le occasioni perse che non torneranno più.
La famiglia non è un porto sicuro, ma un oceano in tempesta. L’ipocrisia si nasconde dietro ai larghi sorrisi, alle pacche sulle spalle che celano la loro infelicità. L’utopia è quella di costruirsi una vita “normale”, in cui i drammi non esistano e la felicità regni sovrana.
A casa tutti bene è una provocazione già dal titolo. La locandina (tanto criticata) è un insieme di falsi sorrisi, di maschere, dove tutti si prestano a un pirandelliano gioco delle parti. I nonni festeggiano cinquant’anni di matrimonio e invitano i parenti per un pranzo nel loro paradiso terrestre. Figli, cugini, nipoti, ex mogli: tutti rispondono alla chiamata, perché nelle giornate speciali non si può mancare.
Parenti serpenti, spiegava Monicelli, e la sua lezione resta valida anche dopo un paio di decenni. Non si può sperare in un aiuto da chi dovrebbe starci sempre accanto, l’egoismo regola il mondo e per i puri di cuore non resta che girarsi dall’altra parte.
Il regista distrugge l’idea di un focolare domestico in cui l’amore regola i rapporti. Costruisce una summa del suo cinema, dei contrasti tra Padri e figlie, della disperata Ricerca della felicità, degli affetti perduti in stile Baciami ancora, con le pulsioni giovanili de L’estate addosso che restano un sempreverde.
Muccino replica se stesso, la sua bulimia di tematiche irrisolte, l’ipertrofia di un modo di raccontare che avrebbe bisogno di un andamento più asciutto, meno estetizzante, dove la macchina da presa qualche volta si fermi, dando requie agli occhi e al cuore.
Ma nelle imperfezioni, A casa tutti bene trova comunque una sua dolcezza, nei momenti in cui la retorica si fa da parte e la musica si abbassa, in particolare quella cantata. Spesso (forse troppo) il cugino picchiatello si mette al pianoforte per far rivivere i cosiddetti tempi d’oro.
Tutti si fermano, spremono una lacrimuccia e gli ammicchi agli spettatori non finiscono più. In un cast eccezionalmente affollato, spicca Pierfrancesco Favino, che col suo multiforme talento riesce a raddrizzare anche le soluzioni scontate.