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99 lune © Zodiac Pictures/Yunus Roy Imer
Pochi generi sono politici come il melodramma, edificato com’è sulla centralità del desiderio e sulle conseguenze dell’amore, ma 99 lune ci ricorda anche che la sessualità può ancora configurarsi quale spazio d’azione in cui opporsi alle convenzioni borghesi, mettere in discussione se stessi, ripensarsi in modo diverso rispetto a ciò che impone il sistema.
Ora, che il film dello svizzero Jan Gassmann (presentato al 75° Festival di Cannes nella sezione ACID, dedicati a giovani e indipendenti) abbia programmaticamente una propensione pruriginosa è pacifico, con il suo dirompente incipit provocatorio che sovverte le convinzioni e pone lo spettatore al bivio tra gusto e disgusto. Ma è altrettanto vero che, se guerriglia deve essere, tanto vale essere chiari da subito: 99 lune sceglie l’anarchia – dell’atto e dello sguardo – come strumento per incastrarsi nelle crepe moraliste, interrogare l’osceno che sottende il dolore, ostentare qualcosa in grado di perturbare i benpensanti.
Gassmann cerca lo scandalo e lo trova in superficie, ma in profondità – e nelle ombre delle sue immagini scure, mai levigate né ammiccanti perché legate a un quotidiano modesto e comune: la fotografia è di Yunus Roy Imer – lascia che la disperazione, la frangibilità, il dolore ardano sotto la brace dell’attrazione sessuale, della chimica erotica, della brutalità del gesto che è comprensione di un reciproco bisogno.
Con un titolo che non può non far pensare ad altre lune dolenti (le tredici di Fassbinder) e scandisce il tempo, 99 lune sta addosso a due trentenni: Bigna, una ricercatrice scientifica specializzata nello studio degli tsunami e che sta per partire per un soggiorno di ricerca in Cile, e Frank, un outsider che vive senza regole e passa da una festa all’altra. Non cercano l’amore, ma lo trovano. Loro malgrado, forse, perché le strade dell’una e dell’altra destinate a restare parallele si incrociano quando i corpi non possono fare a meno di mischiarsi e i cuori non riescono a rinunciare a tutta la bellezza e al dolore.
Che giri fanno due vite, dice qualcuno, e Gassmann segue proprio il loro peregrinare disordinato, dalla teoria di incontri fortuiti alla calata nell’underground; e mentre il tempo scorre, lasciando i segni sui volti e incidendo sulle paure, il sogno si nasconde dietro l’effimero, l’esercizio dell’amore si confonde con l’abitudine del sesso, il movimento coreografico sopperisce alla latenza del dialogo.
Non c’è sicumera nello sguardo di Gassman né una visione ideologica, quanto piuttosto un retaggio del suo lavoro come documentarista, con il contributo di due protagonisti, Valentina Di Pace e Dominik Fellmann, che fanno tesoro dell’inesperienza e portano in dote un concentrato di sfrontatezza fisica e timidezza emotiva fondamentale per intercettare ragioni e sentimenti dei personaggi.
Che qualcosa non torni è indubbio, non solo le dilatazioni della seconda parte ma soprattutto una narrazione spesso incardinata sul discorso teorico (la fluidità di una generazione che articola una relazione alternativa e disturbante rispetto ai limiti e alle storture della società patriarcale), ma 99 lune sa catapultare il pubblico in una storia d’amore (qualunque cosa voglia dire) che è anche uno stato dell’unione (europea).