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La brava attrice tedesca Marie Bäumer illumina il concorso della Berlinale con il suo ritratto duro e toccante di Romy Schneider in 3 Days in Quiberon, biopic della regista franco iraniana Emily Atef.
Un film che per fortuna non racconta la vita della diva austriaco-tedesca, ma tre giorni, decisivi, degli ultimi mesi di vita. Il plot è la preparazione della prima intervista della Schneider dopo un lunghissimo periodo lontana dalla stampa, nel marzo del 1981. Sei mesi prima della tragica morte del figlio e un anno prima della propria.
Quando la Bäumer posa davanti al fotografo sul letto, in accappatoio, mentre fuma e beve champagne con il giornalista dello Stern, danza e ride nella sua stanza nel centro di riabilitazione di lusso a Quiberon, in Bretagna, crea un’immagine elegiaca, elegantemente valorizzata dalla scelta visiva del bianco e nero delle immagini.
Il dolore negli occhi e sul volto di Romy Schneider è il dolore di una donna alle prese con gli abissi di un’anima e da anni in una condizione permanente di panico. È la messa in scena dei dettagli, e dei sintomi, di una grave depressione. Molto più di un dettaglio biografico nella vita di una grande attrice.
Questo secondo film tedesco in concorso parla della morte, ma senza farla entrare nella suite della Scheinder. Un film spontaneo, elegante, asciutto. Riuscita più di tutte, e tra le migliori finora viste in concorso, la lunga scena dell’uscita notturna non autorizzata dalla clinica-resort, insieme all’amica del cuore, al fotografo e al giornalista, per rifugiarsi in una serata, e poi nottata, in una locanda al mare, immersa di champagne, ironia, leggerezza, joi de vivre, poesia, di canto e danze.
Qui il film sembra arrivare dai primi anni settanta, da un film francese con la stessa Schneider. La prima risposta della lunghissima intervista data la mattina dopo al giornalista sarà: "Ho 42 anni, sono una donna infelice e mi chiamo Romy Schneider". Marie Bäumer eccelle nella velocità di variazioni espressive tra l’ubriachezza e la tristezza, la risata più fragrante e gli sguardi malinconici che catturano la macchina da presa. Un film riuscito, raffinato, sulla sottile linea tra la vita, e la rinuncia a vivere.