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Non poteva finire che con un amletico dubbio questa edizione del concorso al festival di Cannes, incentrato sulla passionalità e l'ardore dei sentimenti come mai si era visto negli ultimi anni. La virtù filosofica incentrata sulla presenza o assenza del significato più puro del verbo "essere" coglie in pieno l'ultima opera di Wong Kar-wai, 2046. Continuazione concettuale di In the Mood for Love, prolungati e difficoltosi anni di gestazione, sale di montaggio aperte fino all'ultimo giorno a disposizione prima di arrivare sulla Croisette, 2046 è il classico rovello per chi si cimenta nel dare giudizi sul cinema: grande film o film sbagliato? Perché le opere del maestro di Hong Kong di solito non ammettono dubbi e/o ripensamenti, mentre questa volta molti mugugni, composti ed educati va detto, si sono levati. In poche parole la vicenda di Mr. Chow che vive un dolente, sofferto ed errante cammino di donna in donna, nell'attesa di una improbabile ricomparsa di Mrs. Chan (tutti ricorderanno il travolgente amore interrotto fra Chow e Chan nel magniloquente In the Mood for Love) si sdoppia di continuo in una sorta di trasposizione con sconfinamento nello sci-fi, per via di un fantomatico treno che dal 1967 porta nel futuristico 2046. Elemento narrativo pregnante, parto della mente di Mr. Chow, che di professione fa il giornalista e lo scrittore, ma anche chiave di accesso in quella dimensione spazio-temporale dove si ritrovano i souvenir perduti, ma da cui nessuno torna indietro. Confine di senso e luogo di vagabondaggio dell'anima, popolato da androidi che piangono solo il giorno dopo, 2046 di Wong Kar-wai fa nascere domande legittime sull'ontologia dell'opera e sul suo significato ultimo: che il tocco autoriale si manifesti in ogni inquadratura di 2046 è innegabile, che l'estetica del nostro sia qualcosa di non copiabile quindi peculiare è altro dato oggettivo, come il fatto che il fascino prettamente visivo non può essere sottovalutato. Eppure si ha la forte sensazione che 2046 sia un film
senza un unico filo conduttore e nettamente separato in due rivoli distinti di narrazione, con una versione montata che sicuramente verrà ritoccata dal
regista (celebre l'insicurezza sul prodotto finito nella carriera di Kar-wai) e con la vaga sensazione che la forma si renda da sola sufficiente e prenda il sopravvento mangiandosi, senza integrarsi, l'anima dell'intero film. Molto lontano da Wong Kar-wai, come dal resto da altri titoli di buon livello, il biografico film di Stephen Hopkins, The Life and Death of Peter Sellers. Prodotto per la tv via cavo HBO, risente di tutti i difetti che i film televisivi intrinsecamente contengono: ritmi e tempi da spettatore che necessita ogni tanto di alzarsi dalla poltrona, superficiali sfumature caratteriali e la rievocazione di dati storico-biografici che tengono desta l'attenzione soprattutto nei momenti in cui il solo, assolutamente noschesiano, Geoffrey Rush cerca di tenere in piedi l'intera baracca saltellando goffamente come il grande Sellers. Infine, rimane forte la sensazione che di film da Palma se ne siano visti (quelli di Assayas, Kusturica, Moore, Kore-eda), ma difficile, e come si sa impenetrabile, è il giudizio del bouquet assortito dei giurati. C'è veramente da aspettarsi qualche grande sorpresa (dall'Asia soprattutto).