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Duecento sono i metri tra la casa di Mustafa da quella di sua moglie Salwa, che vivono entrambi a Tulkarem, in Palestina, ma sono divisi dalla barriera di separazione israeliana, un sistema costruito da Israele in Cisgiordania a partire dalla primavera del 2002 (per dare l’idea: è un muro di oltre 700 chilometri, ridisegnato più volte a causa di pressioni internazionali).
Un distacco dovuto a una scelta etica dunque politica, che accomuna molti palestinesi: Mustafa, infatti, non ha accettato il visto di lavoro israeliano, quindi, obbedendo alle regole, è rimasto al di là del tracciato. La scelta, va da sé, si riverbera sull’armonia famigliare (precaria), anche se la coppia fa di tutto per tenere insieme le cose. Quando uno dei figli rimane vittima di un incidente, Mustafa vorrebbe precipitarsi all’ospedale ma viene inesorabilmente fermato al checkpoint. A questo punto è costretto a chiedere aiuto a un contrabbandiere e la breve distanza di duecento metri si moltiplica fino a diventare un vero e proprio viaggio della speranza.
Già solo ricostruendo la storia, 200 metri si fonda su elementi di forte impatto, emotivo e sociale, e si snoda con passaggi di lettura così comprensibile da renderlo un racconto allegorico ed esemplare, fruibile a tutte le latitudini e capace di offrire – specialmente al pubblico occidentale – un’altra chiave d’accesso alla tragedia quotidiana del popolo palestinese.
Lo fa anzitutto scegliendo come protagonista il dolente e fiero Ari Suliman, grande faccia che sembra contenere una carta geografica, e poi mettendo in campo un’immagine che negli anni abbiamo visto spesso sul grande schermo: il checkpoint, un posto di blocco militare, certo, e che non è solo una macchina burocratica ma soprattutto un simbolo che davvero ci permette di collocare la questione politica su un piano universale, dalla dimensione evidentemente teatrale per straniamento e spazialità, perfino onirico in alcune sue espressioni (pensiamo a film come Paradise Now con cui condivide uno degli attori, Suliman, ma anche Foxtrot e Personal Affairs, per citarne solo alcuni).
Nei fatti l’approccio dell’esordiente Ameen Nayfeh (classe 1988, trentenne all’epoca delle riprese) è più realista e usa i simboli con la funzione di piegarli a un racconto il più possibile aderente e vicino a una storia personale e famigliare che è la storia di un popolo, delle sue angosce, delle sue limitazioni, delle sue sofferenze. E si capisce bene: l’obiettivo è “popolare” nella misura in cui il posizionamento ideale dell’opera prima non è tanto nell’alveo del cinema d’autore autoreferenziale quanto piuttosto all’altezza del pubblico e delle sue aspettative.
Perciò a questo dramma, tutto sommato, si possono condonare le concessioni allo schematismo o certe ingenuità esplicative, perché il suo discorso teorico è al servizio dell’accessibilità, l’odissea umana del protagonista è quasi portata al paradosso per sottolineare l’ordinaria barbarie e lo stesso titolo, così preciso quanto evocativo, sta a raccontare un mondo di privazioni sentimentali, divisioni civili, misurazioni spietate, conteggi per sopravvivere. Presentato alle Giornate degli Autori nel 2020, dove aveva ottenuto il Premio del Pubblico (appunto), 200 metri arriva con due anni di ritardo in Italia (che l’ha anche coprodotto con Palestina, Giordania e Svezia).