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20 Days in Mariupol di Mstyslav Chernov
La speranza è che l’Oscar possa spingere i distributori italiani a riportare in sala 20 Days in Mariupol. Il documentario di Mstyslav Chernov, reporter di guerra per AP e premio Pulitzer proprio per il suo lavoro a Mariupol nelle prime ore dell’offensiva russa, ha avuto finora una circuitazione a singhiozzo. Come se il suo contenuto non avesse sufficiente appeal, come se non ci riguardasse.
È una premessa che di norma non faremmo per altri film, se non si trattasse di un presupposto fondamentale per la sua riuscita: 20 Days in Mariupol non solo non esiste indipendentemente dalla nostra partecipazione: non vuole. Nel testimoniare senza tema di censura quello che è accaduto nella città martire della guerra in Ucraina, indugiando sulla distruzione arbitraria di vite, di case, di normalità e infrastrutture, Chernov non veste mai i panni del freddo testimone ma entra in campo, si fa parte della tragedia, attirando l’obiettivo su di sé e, dunque, su di noi che ignavi guardiamo.
Così, l’orrore in flagranza colto da questo coraggioso videogiornalista – che si spinge sino a inquadrare il corpo esanime di un neonato ucciso dalle bombe – non è pornografia del dolore perché non è mai solo mostrato, esibito ma compenetrato, vissuto, accolto. È un lavoro che, mentre espone, ci espone, aggredendo il nostro bisogno di sicurezza, le comfort zone, l’anestetico meccanismo del distanziamento per immagini.
C'è un momento in 20 Days in Mariupol in cui Mstyslav Černov si stacca dalla mdp per vivere l'inferno che sta filmando, accanto ai dannati. La camera rimane accesa, perché il dispositivo deve filmare anche quando vorremmo chiudere gli occhi. Ma l'uomo deve rimanere uomo tra gli uomini. Una lezione sul senso profondo del girare, consumar immagini. E un monito che vale per tutto. Dopotutto, cos’è il cinema se mancano gli uomini?