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Se non fosse inflazionato, il termine “classico” sarebbe giustificato nel caso di A Most Violent Year (lasciamo perdere il pessimo titolo italiano…) per la secca drammaturgia, la tensione delegata ai dialoghi, il taglio espressivo delle luci, una partitura orchestrale ansiogena (di Alex Ebert), praticamente il suono atmosferico del film.
Se fosse un genere sarebbe un noir a colori, nemmeno troppo colorato. J.C. Chandor e il suo strepitoso direttore della fotografia, Bradford Young, ci trasportano in una New York d’epoca, scorbutica ed esangue, con i graffiti sui treni metropolitani, l’aria grigia di smog e la radio sempre accesa sul bollettino criminale giornaliero.
E’ una metropoli opprimente e sottilmente minacciosa quella in cui si muove il nostro eroe, di nome Abel, come la prima vittima dell’Antico Testamento. Uomo d’affari in ascesa – è nel business del gasolio – ha un codice etico ammirevole e del tutto inappropriato nel mondo che ha scelto di conquistare, dove vigono regole e rituali da gangster. La moglie (Jessica Chastain) lo sa bene. E’ lei l’altro fronte caldo di una guerra di logoramento morale: riuscirà Abel a mantenere la schiera dritta e ad avere il successo che sogna senza infrangere la legge?
A dispetto del titolo originale ecco una storia dove poco accade ma molto potrebbe accadere, dal ritmo serrato e una sensazione di catastrofe imminente, perfettamente incarnata dalla catatonia esplosiva di Oscar Isaac, autore di un’altra prova superba. L’antagonista, la cui ricerca segna l’intera parabola narrativa di A Most Violent Year, non ha volto né nome: è il sistema.
Come in Margin Call e in All is Lost, J.C. Chandor cattura la pressione ostile e maligna dell’ambiente, infettando il film di un fatalismo disperato e di un senso di sconfitta che fa male. Forse perciò non è stato troppo amato in America. Eppure per chi volesse oggi una diagnosi non edulcorata dello stato dell’uomo sotto il capitalismo non dovrebbe prescindere dal lavoro del regista di Morristown, 42 anni e un trascorso da regista di spot pubblicitari. Roba da non crederci.