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"Roberto Rossellini era un regista etico non estetico". Così il figlio Renzo ricorda il grande maestro del cinema italiano a un secolo dalla sua nascita. Il prossimo 8 maggio Rossellini avrebbe compiuto 100 anni e la città di Roma si prepara a festeggiare l'autore di capolavori come Roma città aperta, Germania anno zero, Paisà, Europa '51 e Stromboli, terra di Dio con una nutrita serie di iniziative, tra le quali una mostra multimediale al Museo di Roma in Trastevere, una retrospettiva completa delle sue opere al Cinema Trevi, e il restauro di Roma città aperta. "Mio padre l'ho conosciuto soltanto da adulto - ricorda Renzo Rossellini, anche presidente onorario della Fondazione a lui intitolata -. Si era separato da mia madre quando avevo 10 mesi e quindi l'ho incontrato in un'età in cui non si raccontano più le favole, bensì le storie vere. Mi parlava sempre della realtà".
Come vorrebbe che fosse ricordato suo padre?
Per quello che era: uno dei pochi che ha avuto il coraggio di fare cinema quando Cinecittà era occupata dagli sfollati e tutti erano convinti che fosse impossibile farlo. Ma soprattutto come l'unico ad aver creduto nel cinema come strumento etico per aiutare l'umanità. Inseguiva tre grandi utopie: insegnare attraverso i suoi film di guerra ad aspirare alla pace, trasmettere un'immagine della donna come portatrice di sentimenti e non come oggetto esclusivamente sessuale, usare la televisione per aiutare l'uomo a liberarsi dell'ignoranza. Sarebbe stato molto triste nel constatare che nel mondo di oggi nessuno di questi suoi ideali ha trovato applicazione: la gente muore ancora in guerra, le donne sempre trattate come oggetti e la televisione, sia pubblica che privata, nella sua folle rincorsa all'audience e ben lontana dallo svolgere un servizio di utilità sociale.
E che tipo di uomo era?
Ci sono aspetti di lui che nessuno conosce. Era una persona molto divertente, amava fare scherzi, prendere in giro la gente. E poi aveva tutte le qualità che un uomo può avere, era modesto e vanitoso al tempo stesso. Un difetto ce l'aveva: era pigro. Come padre invece era autoritario come lo ero io da fratello: vegliava sulla verginità delle mie sorelle. Con scarsi risultati, devo dire. Era anche un uomo molto libero, per questo odiava le etichette, tanto da non amare neanche essere definito un regista neorealista. Rifiutava qualsiasi costrizione e in politica non voleva essere identificato né come uno di destra né come uno di sinistra, soprattutto in un periodo come quello del dopoguerra in cui la politica era quella di Peppone e Don Camillo. Di certo oggi non avrebbe votato per la Lega Nord, lui si considerava un uomo del Sud, amava Napoli e la Sicilia.
Com'era invece il suo rapporto con la religione?
Diceva sempre: "Mi rammarico di essere ateo". Giudicava coloro che avevano fede più fortunati di lui.
Quando era ancora in vita il suo lavoro fu molto sottovalutato dalla critica e dal pubblico. Come mai?
Perché era molto distante da quello degli altri. Lo sapeva anche lui, tanto da non sentirsi collega degli altri cineasti. Era un grande artista e come tale era un ricercatore, ha percorso vari generi e inventato nuovi stili. Quando cominciò a fare film più spirituali o sulle donne venne definito un traditore perché si era allontanato dal neorealismo. In realtà ogni suo film era diverso dall'altro. Li realizzava avendo in mente di riunirli in due grandi "enciclopedie" cinematografiche: una dedicata alla storia della civiltà, l'altra ai sentimenti.
Ci sono aspetti inediti del lavoro di Rossellini?
Il suo ultimo progetto l'aveva scritto per la televisione: una serie sull'Islam in cui parlava della crisi petrolifera e profetizzava un nuovo razzismo nei confronti dei musulmani, ben peggiore di quello subito dagli ebrei. Abbiamo anche delle lettere indirizzate a Papa Paolo VI per chiedergli di andare fisicamente in Vietnam a fermare la guerra e a Mao Tse Tung per proporgli un'intervista sul futuro dell'umanità.