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“Dal 30 maggio, quando Selfie è uscito nelle sale italiane, il film ha viaggiato molto: Manila, Buenos Aires, America, India… Forse faremmo prima a dire dove non è stato. Abbiamo attraversato tutti e cinque i contenti, e ovunque mi hanno detto che questa storia poteva essere ambientata nella loro terra”, spiega il regista Agostino Ferrente, che accompagna Selfie agli EFA di Berlino, dove è candidato per il miglior documentario.
“Avrei potuto realizzare Selfie in un’altra città, anche se amo Napoli, la sua musica, la sua lingua ricca di metafore, apprezzata in tutto il mondo. Qui il numero di adolescenti che abbandonano la scuola a quattordici anni è altissimo. La criminalità organizzata ne approfitta, e li trasforma in manovalanza, carne da macello. Chi dovrebbe difendere i più deboli, magari poi è quello che spara. Ma dobbiamo ricordarci che il Rione Traiano non è un ghetto, e nascerci non è una colpa”, aggiunge Ferrente.
Selfie è un documento di grande sincerità. Ferrente ha dato uno smartphone a due ragazzi, Pietro e Alessandro, perché filmassero la loro quotidianità. Mentre la città li guardava sorniona, e la mente andava a Davide Bifolco, giovane ucciso per errore da un carabiniere. “L’obiettivo era far capire che tutti possono essere Davide Bifolco. Pietro e Alessandro si specchiano nel display, noi li osserviamo dall’altra parte. Ho dato loro un cellulare perché volevo che fossero spontanei. L’uso di una tecnica non deve essere fine a sé stessa, altrimenti diventa un vezzo. Qui i due protagonisti si sono davvero riconosciuti, sono fotogenici, e hanno fatto un gran lavoro”.
Pietro all’epoca era disoccupato, mentre Alessandro “faticava” in un bar. “Pietro adesso gestisce un salone, fa il parrucchiere, e ha un senso del dovere molto marcato. Una volta gli ho chiesto di andare a ritirare un premio, e lui mi ha risposto che non poteva abbandonare i suoi clienti. Sono orgoglioso. Anche Alessandro è cresciuto professionalmente. Credo che entrambi, se glielo chiedessero, farebbero comunque le comparse per arrotondare un po’”.
Prosegue Ferrente: “Mi è piaciuto sperimentare, giocare col cinema. Ma non so se mi immergerei in un altro film così. Sento di aver bisogno di una pausa. Ho sofferto per Davide Bifolco e per suo fratello, morto di dolore pochi giorni dopo. Girare documentari crea un cortocircuito emotivo. Ci si relaziona con persone reali, non con personaggi di finzione”.
Ferrente è di Cerignola, dove è rimasto fino a diciotto anni. “Mio padre ha fatto tanti mestieri, dal fruttivendolo al doganiere a Gorizia. Mia madre è sempre stata una casalinga. Per me è un miracolo poter stare dietro la macchina da presa. Alcuni miei compagni di scuola sono finiti male. Anche io a quest’ora potevo essere un criminale, e a salvarmi non è stata l’onestà. Semplicemente non ero bravo. Purtroppo è la mancanza di educazione a farla da padrone. Pietro e Alessandro sono degli eroi perché hanno avuto il coraggio di scegliere un’esistenza diversa”. E sui progetti futuri: “Vorrei dar vita a un ibrido, a metà strada tra documentario e finzione, narrando l’adolescenza, l’infanzia. Ma il mio sogno è di poter collaborare con Christian De Sica, ammiro il suo talento”.