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Il Premio Robert Bresson è il riconoscimento della Fondazione Ente dello Spettacolo, a partire dal 2000, “al regista che abbia dato una testimonianza, significativa per sincerità e intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale della nostra vita”, con il patrocinio del Dicastero per la Cultura e l'Educazione e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede. La cerimonia di premiazione si svolge nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
2000 – Giuseppe Tornatore
2001 – Manoel de Oliveira
2002 – Theo Angelopoulos
2003 – Krzysztof Zanussi
2004 – Wim Wenders
2005 – Jerzy Stuhr
2006 – Zhang Yuan
2007 – Aleksandr Nikolaevič Sokurov
2008 – Daniel Burman
2009 – Walter Salles
2010 – Mahamat-Saleh Haroun
“Regista originario del Ciad che attraverso le sue opere continua a raccontarci la tragedia di un Paese sospeso sul baratro dell’autodistruzione, afflitto dalla povertà, calpestato nei diritti e ferito dalle troppe guerre, eppur capace ancora di sollevare gli occhi per un ultimo, umanissimo appello alla speranza. La storia personale e quella collettiva si intrecciano di continuo nella filmografia di Haroun, e saldano in unico movimento le responsabilità dei singoli ai destini dei molti. In tempi di marcato individualismo, il suo cinema ci ricorda che nessun uomo è un’isola.”
2011 – Jean-Pierre e Luc Dardenne
“Non esiste nel cinema contemporaneo un sodalizio artistico altrettanto duraturo e fecondo, ed è anche più raro trovare cineasti capaci ancora di conferire al proprio lavoro il significato di un imperativo morale. Per questi campioni del rigore e della pietà il cinema è arte al livello più alto: l’universale nel particolare. E l’Uomo dentro a ogni cosa.”
2012 – Ken Loach
“Autore di opere caratterizzate da un forte impegno politico e sociale, attente al progresso civile e alla solidarietà umana, che illustrano le condizioni di vita della classe operaia, degli emigrati o dei disoccupati, categorie cui spesso è negata la dignità di lavoratori, di uomini, e quindi desiderose di riscatto e giustizia sociale. Ken Loach è l’epitome stessa dell’impegno al cinema. L’ultimo working class hero della settima arte, capace di coniugare realismo e virate immaginifiche, empatia e critica sociale, nel segno di una costante attenzione per i più deboli. Per Ken Loach il cinema può ancora cambiare il mondo: può entrare in fabbrica e nelle periferie, nella marginalità e nella disperazione, per uscirne più forte e consapevole, affidando al proiettore un raggio di luce che squarcia le tenebre della sperequazione, dell’homo homini lupus. Assegnare a Ken Loach il Premio Robert Bresson istituisce un ponte tra questi due grandi cineasti, e dove risiede questo legame se non nella comune umanità, la condivisa volontà di dire qui e ora dell’Uomo e dei suoi aneliti, della lotta quotidiana per un futuro migliore, e dignitoso.”
2013 – Amos Gitai
“Amos Gitai è regista, sceneggiatore e documentarista israeliano. Tra le opere più famose: Kippur, Giorno per giorno (Yom-Yom), Kadosh, Verso Oriente (Kedma), Terra promessa, Free Zone e Plus tard, tu comprendras… In tutti i suoi film – prevalentemente dedicati ai problemi della società ebraica (dalla fondazione dello Stato d’Israele sino ai più recenti conflitti con i palestinesi) – ha mantenuto una posizione critica, coerentemente distante sia dalle posizioni ufficiali dei vari governi che si sono succeduti, sia da pregiudizi ideologici che spesso condizionano i sostenitori dell’una o dell’altra fazione in lotta. Questa forma di disincantata lucidità, che lo ha spesso condotto ad assumere posizioni non allineate, dà vita, nel suo ultimo film ANA ARABIA, ad un ritratto partecipe, umanissimo e carico di un’esplicita valenza utopistica, di una piccola enclave di famiglie arabe che convivono pacificamente con parenti ebrei. Lontano da ogni forma di massimalismo, è un film dove la politica assume radicalmente le forme che dovrebbero esserle proprie: quelle della condivisione di scelte alla base delle quali ci sono, prima di ogni altra cosa, gli uomini e le donne, con i loro sogni e desideri, bisogni e problemi quotidiani. Ad oggi, la sua attività conta più di ottanta titoli prodotti nell’arco di quarantuno anni. La sua produzione è sbalorditiva, ma in realtà è la diversità dei suoi film a colpire, considerando la sua opera nell’insieme (al suo interno bisogna includere produzioni video, allestimenti teatrali e libri). Tuttavia, a questa diversità fa da contrappeso un’estrema coerenza. Nel corso degli anni, Amos Gitai ha rielaborato gli elementi fondamentali dei propri lavori, allo scopo di indagare ogni volta, dal punto di vista del reale quanto dell’immaginario, i territori e le domande cui la sua opera si rivolge. Nato in Israele, è figlio dell’architetto del Bauhaus Munio Weinraub e dell’intellettuale Efratia Gitai, insegnante non religiosa di testi biblici. Giovane soldato, viene mandato sul campo di guerra del Golan, nel 1973, dove è testimone della nascente resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana; a queste esperienze cruciali, fondamentali per i suoi film, è necessario aggiungere la sua formazione e vocazione di architetto. Amos Gitai vive tra Haifa e Parigi. La sua opera, che lo pone tra i registi più apprezzati del panorama internazionale, esplora nuovi orizzonti narrativi e stilistici, sempre in relazione con la realtà contemporanea, anche quando i suoi lavori sono ambientati in un passato mitico.”
2014 – Carlo Verdone
“Lucido interprete della grande commedia, Carlo Verdone ha saputo ricollocare la tradizione italiana delle maschere e della comicità popolare sul difficile campo d’indagine della società e della cultura. Tra le facce di personaggi indimenticabili, che ci accompagnano e ci divertono da oltre 30 anni, intravediamo il volto fluido di un Paese stravolto – persino travolto – nella transizione dall’anestesia del benessere alle inquietudini del tempo globalizzato, da un provincialismo ricco di certezze a uno spaesamento colmo di paure. Passaggio che Verdone ha saputo cogliere con crescente consapevolezza, frutto anche di una costante maturazione stilistica. A non mutare mai è stata invece la poetica dell’attore e regista romano: graffiante ma garbata, disincantata senza però mai cedere il passo al cinismo. Che parli di giovani amanti, di coppie scoppiate, di fratelli e sorelle, di padri e figli, il cinema di Verdone si è rivelato ogni volta lo specchio girevole di un’umanità sfibrata ma viva, misera e nobile, capace di tutto, del più bieco e comodo individualismo quanto di un irrefrenabile e splendente desiderio di purezza.”
2015 – Mohsen Makhmalbaf
“Dopo essere stato uno dei registi di punta del cinema iraniano degli anni Ottanta, già dagli anni Novanta incomincia un percorso di distacco graduale dalla politica del governo iraniano e affronta un’ulteriore tappa nella costruzione di una nuova identità cinematografica. Autore da sempre sensibile ai conflitti politici e alle questioni socioculturali del Medioriente, Mohsen Makhmalbaf rifugge dalla facile condanna verso i tanti despoti che opprimono la regione nonostante, esule con la moglie dall’Iran da oltre dieci anni, abbia una lunga storia familiare dolorosa. Il suo cinema, scaturito dal contatto diretto con le prime esperienze artistiche sviluppatesi dopo la rivoluzione islamica del 1979, nasce dallo sforzo di coniugare temi religiosi e sociali in forma di apologhi e raggiunge con piena consapevolezza una raffigurazione esteticamente alta e simbolica della realtà.”
2016 – Andrej Končalovskij
“Regista scomodo, dallo stile essenziale, capace di grande scandaglio psicologico, Andrei Konchalovsky ha compiuto un percorso umano e professionale encomiabile, che si sostanzia in una visione positiva del cinema, mezzo capace non solo di patire ma di agire nella realtà, riconnettendola a un’ideale di giustizia. Un’istanza presente fin nei primi lavori, che si pongono non a caso in contrapposizione con il Potere russo (La felicità di Asia, girato nel 1966, uscirà solo nel 1988) prima e con Hollywood poi, dove pure riesce a realizzare veri e propri gioielli come Maria’s Lovers, A 30 secondi dalla fine e I dissidenti. Il ritorno nella madrepatria è segnato da un film fondamentale come Il proiezionista (1992), che ripercorre la Russia stalinista attraverso lo sguardo “cieco” e ingenuo del proiezionista ufficiale del Cremlino. Un atto di denuncia forte, che sottolinea il rapporto sempre stretto e spesso improprio tra Arte e Potere. Una riflessione che accompagna anche gli ultimi lavori del regista, più meditativi e nostalgici, e che tocca il suo vertice con The Postman White Nights, Leone d’Argento a Venezia 2014 e perfetto esempio di quel cinema capace di essere politico senza più essere ideologico, etnografico senza dover essere scientifico. Un cinema intimo e sommesso però declinato al plurale, in quella collettività, quel noi, da cui emerge e ritorna la storia e il senso di ogni individuo.”
2017 – Gianni Amelio
“Negli ultimi trentacinque anni, Gianni Amelio ha percorso e rivisitato i generi, si è sottratto al “pensiero unico” della commedia all’italiana nella sua fase declinante verso la farsa e si è misurato spesso con la matrice letteraria, da Sciascia a Ermanno Rea, da Camus a Pontiggia, ogni volta restituendone il senso in una chiave personale e non pedissequa. Nel corpus di Amelio i temi della famiglia (il conflitto padri/figli e le assenze/presenze intergenerazionali) e delle migrazioni, da Lamerica a Così ridevano, acquistano un primato scevro dalle ideologie e dalle contingenze della cronaca. Egli coglie un disagio carsico lungo il ‘900 e oltre e rivela la potenza (ri)generatrice dell’esodo, di chi si mette in viaggio in cerca di una nuova Terra promessa, sotto il segno di una stella che forse non c’è più, ma brilla nella notte dei popoli.”
2018 – Liliana Cavani
“Autrice refrattaria alle mode, radicale e felicemente provocatoria, la sua opera assorbe e restituisce con notevole forza espressiva la tensione intimamente cattolica tra la vocazione alla santità e la legge di gravità del peccato. Un conflitto talvolta aperto (come nella trilogia su Francesco o nei documentari sulla vita consacrata non secolare: Gesù mio fratello e Clarisse) e altre volte camuffato in storie di uomini e donne in faticosa ricerca, attraverso percorsi di sperimentazione continua, tra smarrimenti, consapevolezze e bagliori.”
2019 – Lucrecia Martel
“Artista rigorosa, capace con una manciata di film di salire alla ribalta internazionale con una poetica riconoscibilissima, squisitamente femminile, originale senza essere mai gratuita, al servizio delle sue storie fuori dall’ordinario e dei loro risvolti umani, sociali, spirituali, Lucrecia Martel – incaricata dalla Biennale Cinema di presiedere quest’anno la giuria del Concorso – è l’autrice di opere spiazzanti e significative quali La ciénaga (2001), La niña santa (2004), La mujer sin cabeza (2008) e il più recente Zama (2017), presentato Fuori concorso alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, lavori segnati da una profonda e irriducibile passione nei confronti del mondo e dell’Umanità che lo abita, delle sue aspirazioni e dei suoi conflitti, delle sue bassezze e dei suoi slanci più “celesti”, sullo sfondo vivo della tormentata società argentina.”
2020 – Pupi Avati
“Regista, scrittore e produttore cinematografico, Pupi Avati è tra i maestri più prolifici ed eclettici del panorama cinematografico nazionale, capace in oltre cinquant’anni di carriera di cimentarsi con generi e registri espressivi diversi, dall’horror alla commedia familiare, dall’autobiografia al dramma storico, rivisitati con il diaframma di uno sguardo sempre lucido, capace di penetrare i sentimenti nascosti e le pulsioni più inconfessabili degli esseri umani. Ad accomunare opere diversissime quali La casa dalle finestre che ridono (1976) e Regalo di Natale (1986), Magnificat (1993) e Il cuore altrove (2003), Jazz band (1978) e Il papà di Giovanna (2008), Le strelle nel fosso (1979) e Il signor diavolo (2019) è il desiderio di raccontare luci e ombre del mondo evocato, che si tratti della provincia emiliana o di un passato dolce e rimpianto, delle peripezie familiari e di quelle dell’anima. La filmografia di Pupi Avati è un inesauribile lavoro di educazione allo sguardo, in grado di modificare la realtà osservata, di rinnovarla e fecondare l’immaginazione, affinché possa scorgere la grazia dell’ombra delle cose.”
2021 – Alice Rohrwacher
“La sua opera è incardinata in uno spazio che non c’è più e in un tempo che non è ancora: è rimpianto e promessa, materia arcaica e trascendenza. Gli ultimi bagliori di un mondo in disfacimento, il mondo contadino, si rivelano allo sguardo dell’autrice come epifanie di luce, corpi celesti e resurrezioni. I suoi film rielaborano in modo locale tensioni globali, preservano il mistero dalla pornografia del contemporaneo, lamentano la perdita dell’antico senza farne un epitaffio. E mentre attraversano la terra smorta dell’immaginario scorgono fioriture di senso, possibilità impreviste, passaggi nascosti. Come fantasmagorie di un vecchio lucernario. Meraviglie del cinema di Alice.”
2022 – Hirokazu Kore’eda
“Punto di riferimento fondamentale della nuova leva registica giapponese, Kore’eda è il regista che più di ogni altro ha saputo aggiornare i canoni della scuola nipponica, indicando attraverso una poetica estremamente intima e personale il punto in cui tradizione e modernità si guardano, si sfidano, si abbracciano. E laddove i suoi coetanei hanno continuato a interrogarsi sulla generatività del trauma (l’atomica, da Hiroshima a Fukushima) nella mentalità e nella cultura del proprio paese, Kore’eda ha preferito setacciare la coscienza del Giappone dentro l’orizzonte più ampio dell’occidentalizzazione del gusto e dei costumi, ponendo questioni decisive come la memoria, la morte, la famiglia, l’amore, sotto la lente binoculare di una sensibilità ibrida, globale, fortemente contemporanea.”
2023 – Mario Martone
“Mario Martone è un autore colto, poliedrico, non incasellabile nei tradizionali schemi della critica italiana. Un lavoro caratterizzato dalla eterogeneità dei temi e dei materiali – teatro, opera, Storia, letteratura – e dall’unicità di un percorso votato all’apertura continua, al dialogo, alla ricerca di accordo. Un procedere per sconfinamenti e mappature, una testimonianza preziosa di cinema impuro, dilatato, votato per indole e per nascita (la napoletanità), ad accogliere. Stupire e stupirsi: in questo doppio movimento centrifugo e centripeto s’intravede forse la meccanica inquieta e passionale di un cinema che cerca nella tradizione dell’arte e nei saperi delle tante culture che lo abitano una misura del vivere e del sentire umano. Uno sforzo affascinante, temerario, sospinto da una fede incrollabile nel gesto registico totale. Un guardare lontano, oltre la soglia di campo e fuoricampo, pronto a cogliere l’istante inatteso e rivelatore”.
2024 – Eugène Green
Premio Speciale per ricordare i venticinque anni della morte del regista di Au Hasard Balthazar e dell’istituzione del riconoscimento a lui intitolato. “Per l’incessante e coerente ricerca di una forma cinematografica autentica, rispettosa della verità dell’uomo e delle cose. Un’ideale tensione al Bello, figlia di un’idea metafisica della settima arte: il cinema per lui è parola fatta immagine”.
2024 – Marco Bellocchio
“La realtà così com’è non basta, sembrano suggerirci Bellocchio e Bresson. Bisogna aprirla con il bisturi del cinema perché possa sgorgare l’invisibile, che si manifesta come mistero di luce e di ombre. Sul piano inclinato delle macchinazioni della Storia – ricca di accenti escatologici in Bresson, più terreni in Bellocchio – il cinema di questi due giganti non scivola mai ma risale, cercando quella libertà che vince ogni gravità, fino alla morte. Ed è la croce la chiave di volta iconografica che sorprendentemente sospinge entrambi: là dove lo schermo si incurva nel bagliore della Grazia, in Bresson. Nella vita che si schioda, liberata dalla preghiera di un bambino, in Bellocchio”.