Quando pensiamo al grande cinema italiano del passato – specialmente quando, con qualche comoda benché condivisibile nostalgia di troppo, ci sentiamo a disagio con quello contemporaneo – ecco che affiorano subito i nomi dei mostri sacri che non ci sono più: prima i De Sica, le Magnani, i Totò, i Fabrizi, le Valli; poi i Mastroianni, Sordi, Vitti, Tognazzi, Gassman, Manfredi, Mangano, Volontè con Loren, Lollobrigida, Cardinale e Sandrelli ancora tra noi a ricordarci quando eravamo re e regine del mondo. Non si capisce bene perché nel novero del divismo tendiamo a dimenticarci di Giancarlo Giannini, se non come metà di una coppia e vertice maschile di un triangolo (i tre film con Mariangela Melato, che nella percezione collettiva sembrano molti di più, diretti da Lina Wertmüller, che con lui ne ha girati altri sei).

Eppure Giannini, che oggi, 1° agosto, compie 80 anni, è stato un interprete fondamentale nel cinema italiano, erede della prestigiosa scuola teatrale nazionale ed esponente di spicco della nuova generazione nata e cresciuta nel dopoguerra, istrione che rinnova la tradizione grottesca dei mostri della commedia proiettandosi nel mercato internazionale come baluardo della cultura europea.

Nessuno come Giannini ha saputo raccontare il carattere italiano, la sua peculiarità cialtrona e il suo spaesamento di fronte ai cambiamenti, nel momento in cui gli autori spostavano la loro attenzione sull’allegoria e sul recupero del passato, abbandonando la commedia (all’italiana) come epicentro narrativo dell’evoluzione del costume.

Giancarlo Giannini in I fratelli De Filippo

Al servizio di registi molto diversi tra loro, per almeno due decenni Giannini è riuscito a intercettare le caratteristiche di una tipologia umana locale rendendola comprensibile al di fuori dei confini: l’esuberanza dell’arte d’arrangiarsi e l’esplosione della rivoluzione sessuale, la disperata vitalità del popolo disincantato e l’arroccamento del borghese sotto assedio, il figlio incapace di “uccidere il padre” e la rabbiosa vittima del destino. Tanti i riconoscimenti: una nomination all'Oscar, il Prix d'interprétation masculine a Cannes, cinque David di Donatello, sei Nastri d'Argento, cinque Globi d'Oro, un Ciak d'Oro.

Poi, forse per l’invecchiamento o il pensionamento di certi autori, Giannini si è accontentato di ruoli poco stimolanti, cliché ripetuti, macchiette consapevoli, trasferte di lusso, piccoli personaggi per piccoli film. Pochi hanno saputo dargli occasioni all’altezza della sua statura (i due Bond, Casino Royale e Quantum of Solace, Paolo Virzì in Notti magiche, Francesca Archibugi nella serie Romanzo famigliare, Sergio Rubini che l’ha voluto come Eduardo Scarpetta per I fratelli De Filippo) e infatti ormai sembra divertirsi di più nel doppiaggio (voce ufficiale di Al Pacino, ma ha tradotto anche Jack Nicholson, Donald Sutherland, Malcolm McDowell, Gérard Depardieu). Ma è uno dei monumenti del nostro cinema e, nel giorno del suo compleanno, ci piace riconoscergli una carriera impareggiabile in dieci tappe.


Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) (1970)

Studi all’Accademia Silvio D’Amico, il battesimo sul palcoscenico, la rivelazione con gli sceneggiati (David Copperfield), poi il cinema grazie a Wertmüller (il dittico di Rita la zanzara). Ettore Scola ne intuisce subito il funambolismo, trasformandolo nel focoso pizzaiolo fiorentino che fa perdere la testa alla fioraia Monica Vitti già accoppiata al muratore Marcello Mastroianni. Lo richiama quasi trent’anni dopo per dar vita a un filosofo compiaciuto e insoddisfatto in La cena.

Mimì metallurgico ferito nell'onore (1972); Film d'amore e d'anarchia (1973); Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d’agosto (1974)

Li mettiamo tutti insieme: sono i suoi film più celebri, realizzati con la partner ideale, Melato, e la regista, Wertmüller, che più l’ha valorizzato. Giannini si scatena una galleria memorabile: un operaio siciliano comunista che tradisce la moglie con una trotskista; un giovane contadino lombardo che vuole uccidere Mussolini ma si innamora di una prostituta (premio a Cannes); il marinaio naufragato su un’isola deserta insieme a una ricca signora milanese. Sono personaggi mitologici e iperrealisti che lo incastonano nell’immaginario collettivo, regalandogli l’eternità.

Giancarlo Giannini e Mariangela Melato in Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto © MEDUSA (Webphoto)

La prima notte di quiete (1972)

Lo citiamo perché nel film di Valerio Zurlini dimostra la precoce maturità di una recitazione stratificata e imprevedibile. Mentre altrove spinge l’acceleratore verso il grottesco, qui fa emergere la malinconia, il tatto, la sensibilità: unico amico sincero del misterioso Alain Delon, è in apparenza un giocatore cinico, alcolizzato e superficiale ma in realtà un ferito a morte dedito a una struggente nostalgia, forse consapevole di provare per il protagonista un amore impossibile.

Sessomatto (1973)

Come i colleghi della generazione precedente (Gassman in Il mattatore e I mostri anche con Tognazzi, Mastroianni in Ieri, oggi, domani, Manfredi in Questa volta parliamo di uomini e Vedo nudo), l’one-man show è il banco di prova del trasformismo di Giannini (qui anche per Laura Antonelli), mai così travolgente per mimetismo fisico e acrobatismo linguistico. Nove personaggi per altrettanti sketch su liberazione dei costumi e ossessioni erotiche (sul tema rivedere anche il coevo Paolo il caldo, romanzo di formazione sessuale da Brancati): un film oggi impensabile, firmato Dino Risi.

Pasqualino Settebellezze (1975)

Il capolavoro di Giannini, che trova la misura nella dismisura in una feroce parabola (dis)umana sulla primordiale lotta di sopravvivenza, una squallida epopea sulla bestialità dell’istinto, zenit del cinema anatomico, indecente, sconquassato di Wertmüller. La faccia dell’attore incarna la sconfitta del plebeo di fronte alla violenza della Storia attraverso l’apoteosi del primo piano: il fallimento della moralità, l’epos plebeo del fatalismo più sciagurato, il trionfo di un nichilismo privo di pudore. Candidato all’Oscar.

Buone notizie (1979)

Citiamo il congedo di Elio Petri in rappresentanza della galleria di personaggi sgradevoli che sfodera negli anni Settanta. Più dell’assassino ma cattolico osservante di Fatti di gente perbene (Mauro Bolognini, 1974), più dello spietato superuomo dannunziano de L’innocente (passo d’addio di Luchino Visconti, 1976), l’uomo senza nome e senza scrupoli di questo acido apologo morale è lo specchio di una decadenza collettiva. Controcorrente, Rainer Werner Fassbinder lo rende eroe romantico in Lili Marleene (1981).

Mi manda Picone (1984)

Maestro della mimesi dialettale, qui si trasfigura in quintessenza di un popolo, diventando un napoletano più napoletano dei napoletani (un po’ come il regista, Nanni Loy, che sotto il Vesuvio non ci era nato ma come pochi ha raccontato quella città). E da quella gente prende l’arte di arrangiarsi come vangelo, la malinconia lancinante, il senso di una sconfitta storica, la consapevolezza di essere sempre sottoposto a un altrui volere. A testimoniare l’ideale adesione partenopea, Luigi Magni lo sceglie come Francesco II di Borbone in O’ re.

Il male oscuro (1990)

Prima dello slittamento progressivo verso occasioni meno scoppiettanti e di maniera (ma negli anni Novanta spicca in Come due coccodrilli, Milonga, La stanza dello scirocco), Mario Monicelli gli offre una di quelle possibilità che solo un divo. Dal romanzo di Giuseppe Berto, una narrazione aspra, tra sarcasmo e dolore, per un racconto frantumato, con un personaggio devastato dalle nevrosi e inghiottito da un mondo ostile. Monicelli lo definiva “un documentario su Giannini”. Che si dona totalmente.

Giancarlo Giannini in Celluloide (Webphoto)

Celluloide (1996)

Tra ricostruzione filologica e riflessione intellettuale, la lavorazione di Roma città aperta secondo Ugo Pirro (autore del romanzo all’origine) e Carlo Lizzani (regista e testimone) narrata come un’epica degli sconfitti che trovano il riscatto grazie alla follia di un progetto diventato pietra miliare. Giannini è Sergio Amidei, demiurgo brusco eppure controllato, un po’ romantico e un po’ fragile ma con un velo d’ironia, ed è memorabile.

Il cuore altrove (2003)

Troppe le partecipazioni evitabili degli ultimi vent’anni, poche le opportunità per ricordare (e rivendicare) il suo statuto d’attore. Una di questa gliela dà Pupi Avati, che gli affida un ruolo pensato per Alberto Sordi (e come moglie, non a caso, c’è Anna Longhi): in questo mélo sull’illusione d’essere amati, Giannini è il padre del timido maestrino Neri Marcorè, un impetuoso sarto pontificio che fa da contraltare al figlio, senza perdere l’umanità.