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La carriera di Harvey Weinstein a Hollywood è probabilmente finita.
Dopo la bomba lanciata ieri dal New York Times, con tanto di accuse di molestie sessuali da parte di attrici come Ashley Judd e Rose McGowan e di una mezza dozzina di ex dipendenti, il noto produttore è stato costretto ad autosospendersi dalla società che porta il suo nome (la Weinstein Co.). L'impressione è che le cattive notizie per Weinstein siano solo all'inizio: scandali come quelli che hanno travolto di recente Bill Cosby, Bill O'Reilly e Roger Ailes, ci hanno insegnato che, una volta partita, l'onda è destinata a ingrossarsi con nuovi testimoni e rivelazioni.
Certo, il caso Weinstein ha questo di peculiare: che Weinstein è a capo della sua stessa società e, a meno che non venga sfiduciato dal suo cda o da suo fratello Bob, co-fondatore della Weinstein Company, difficile immaginare un suo passo indietro definitivo. Al momento però non sembra avere montato una difesa convincente, sebbene il suo avvocato Charles Harder stia preparando una causa contro il giornale.
Piuttosto, la vera domanda è come la comunità artistica si comporterà nei confronti del produttore. Netflix vorrà acquistare film e show dalla Weinstein Co. se Harvey Weinstein rimarrà al timone? Michael Moore e altri registi liberali vorranno ancora mettere il marchio Weinstein ai loro progetti? E come si comporteranno agenti e società di marketing nei confronti della società?
Per non dire dei problemi di finanziamento. Sembra improbabile che un grande fondo di investimenti si senta a suo agio nel sostenere in futuro Weinstein. Il paradosso è che una Weinstein Co. senza Harvey Weinstein oggi è inimmaginabile. Ma anche una con lui.