Nel 1970, sulle pagine della Rivista del Cinematografo, apparve un'inchiesta sul cinema politico italiano, sull'onda dei molti riscontri che i film del filone stavano ottenendo in quel periodo. Per fare un punto della situazione, Mario Foglietti (giornalista e critico tra i più brillanti della nostra testata) raccolse i pareri di alcuni autori di punta: Bernardo Bertolucci, Francesco Maselli, Ansano Giannarelli, Liliana Cavani, Valentino Orsini, Andrea Frezza, Nicolò Ferrari, Edoardo Bruno.

E Paolo e Vittorio Taviani, che fino a quel momento avevano girato quattro film: Un uomo da bruciare e I fuorilegge del matrimonio insieme a Valentino Orsini, I sovversiviSotto il segno dello scorpione.

In occasione dell'uscita in sala di Leonora addio, primo film diretto da Paolo dopo la morte di Vittorio, riscopriamo questa intervista per capire meglio il pensiero dei fratelli più famosi del cinema italiano.

 

Cos'è, secondo voi, il «cinema politico»?

Vittorio Taviani. - Si vuole sempre etichettare tutto: questo è cinema politico, quello no, questo sì, ma… Io non so cosa sia il cinema politico. Le ritorno la domanda: che cos'è il cinema politico? L'aggettivo poetico, oggi, è fuori moda e se ne usa un altro: politico, appunto. Cinema politico dovrebbe essere solo il cinema che affronta argomenti politici ben circoscritti. La sua validità sta nella sua utilità immediata. È un tipo di cinema che presuppone tempi di realizzazione stretti e tempi di diffusione ancora più stretti (il valore di una certa parola d'ordine in una determinata battaglia operaia, per esempio, si brucia durante la battaglia stessa). È il cinema di Solanas, di Ivens, (in parte), per citare due nomi più riconoscibili. Se poi i loro film raggiungono anche risultati poetici è un fatto incidentale, assai raro. A tutti i loro colleghi - e sono oggi parecchi - l'incidente non capiterà mai.

Paolo Taviani - Una cosa è il cinema, una cosa è la politica. Entrambi tendono a cambiare le cose: ma con strumenti, incidenze, modi e tempi di attuazioni diversi. La loro utilità è reciproca sta nella loro autonomia. La loro interdipendenza sta nella loro unicità. Se il cinema si mette invece a fare soltanto da cassa di risonanza alla politica, viene meno alla propria responsabilità maggiore: anche in rapporto all'azione politica: e cioè di fornire all'azione politica stessa eventuali materiali da elaborare. Cosi come il lavoro politico, soprattutto in prima persona, può fornire all'autore alcuni dati base per la sua elaborazione specifica (quella, appunto, cinematografica).

 

C'è chi afferma che gli unici esempi validi di cinema politico sono il vostro, quello di Straub...

V. - Lo so. Ma per i nostri amici, in questo caso, "politico" sta per "rivoluzionario": e allora il discorso è tutto un altro (un discorso probabilmente tutto cinematografico). E poi io mi sento a disagio a tirare in ballo questa parola tanto grossa e tanto manipolata: rivoluzione.

 

Dovete, comunque, ammettere che il vostro cinema può prestarsi all'equivoco.

P. - L'equivoco nasce da questo: che i personaggi dei nostri film muovono quasi sempre in un ambito, in una problematica politica. Infatti la materia che ci stimola è quasi sempre una materia politica (da Un uomo da bruciare a Sovversivi a Sotto il segno dello scorpione). Ma ciò non vuol dire che il significato di quei personaggi coincida con il significato del film. Non vuol dire che l’interesse politico che muove i nostri eroi sia l’interesse - o il solo interesse - che muove noi come autori del film. I personaggi, le storie politiche che stanno alla base delle nostre opere sono soprattutto dei dati narrativi, non degli ideogrammi ideologici. Appartengono al momento narrativo dell’opera, più che alla sua poetica. Di qui l'errore di far derivare il senso del film, partendo dal senso dei suoi personaggi. O - peggio ancora - di desumere dai personaggi "politici" alcune indicazioni per un immediato lavoro politico. È stato per noi molto divertente leggere certe recensioni dello Scorpione, risolte in un gioco enigmistico tra Stalin, Dutsche, Mao, De Gaulle, Togliatti, Guevara, eccetera, eccetera. È chiaro che un autore non sceglie i suoi materiali a caso: ma tutto questo sta a monte di quello che poi è l'organismo vivente e autonomo del film.

 

È possibile un cinema spettacolare al fine di divulgazione politica?

V. - Ci sono film che, con contenuti "progressivi", si esprimono in linguaggi mercificati o quasi. Diffidiamo di tale tipo di operazione. Sul piano estetico il problema neanche si pone. O vogliamo ripetere ancora la distinzione forma-contenuto? Ma anche sul piano della diffusione politica questo tipo di film finisce col dare risultati reazionari. Ciò che fa di un film un film è il suo modo di essere specifico, il suo modo di comunicare con gli altri. Il cinema commerciale punta, con il più assoluto rigore, sul la gradevolezza del linguaggio: e cioè sulla sua capacità di fare evadere il pubblico da se stesso e dalla realtà che lo circonda. Di qui la ripetizione non affaticante di schemi, la sollecitazione di tensioni epidermiche, la prevedibilità: infatti anche la "suspence" per il più vistoso degli imprevisti si risolve sempre nel ritorno a un mondo conchiuso, prestabilito in partenza, e per questo tranquillizzante. Il contenuto più "rivoluzionario", manipolato in questa salsa, perde ogni sua carica sovversiva: anzi, poiché viene incamerato nel gran calderone dei "sogni ad occhi aperti", diventa strumento per riconfermare la passività dello spettatore. proprio là dove lo spettatore dovrebbe essere più sollecitato. La verità è sempre scomoda, spesso sgradevole. Il prezzo della ricerca è il rischio, perché l'esito non è mai garantito in partenza. Va ricercato, appunto. E il pubblico deve essere coinvolto nei rischi di questa ricerca.

 

Un cinema di élites, dunque?

P. - Rifiuto l'etichetta, ma ne faccio mio in un certo senso il significato del termine. Il cinema di ricerca (l'unico cinema che conti) va a un pubblico che "cerca". Interessa chi ha gli stessi interessi che sono alla base del film (gli stessi interessi di conoscenza, di intervento sulla realtà, anche se articolati in specificazioni in attività diverse).

V. - Ma poi il rapporto tra il pubblico e il film non può essere valutato nello spazio breve della sua uscita e solo in rapporto agli spettatori che il film è riuscito a raggiungere.

 

E allora come si misura la sua reale incidenza?

V. - Con altri parametri. Per esempio La terra trema, Paisà, Germania anno zero sono film che in Italia non sono praticamente usciti: non hanno avuto pubblico. Eppure sono film che più di tanti altri hanno creato - attraverso la loro specificità di comunicazione – nuovi modi di approccio col reale, di interrogazione delle cose. Tutti coloro che oggi hanno rapporti col fatto cinema (autori, spettatori, critici, e via dicendo) ne sono stati modificati, arricchiti. (E oggi, dopo circa vent'anni La terra trema, proiettato in televisione, viene recepito da milioni di spettatori che riconoscono ormai patrimonio comune quel linguaggio che allora veniva rifiutato come lunare)...

 

Quali possibilità, quali margini per la diffusione di un tipo di cinema di ricerca offre oggi il mercato italiano?

P. - Il cinema prodotto dal capitale è un cinema che concede un margine di libertà molto basso. Bisogna rifare tutto da capo. E subito. I film non possono essere tutti uguali davanti alla legge. Alla libertà degli industriali del cinema - che si identifica con la libertà di perseguire il profitto - va sostituita la libertà degli autori. Solo lo Stato può garantirla.