Per ogni decennio, per ogni genere è possibile individuare dei nomi sui titoli di testa che "sono" il film. Attori-autori, attorno ai quali si costruisce il progetto e la cui presenza garantisce di per sé il finanziamento e la distribuzione. E che finisce con il siglare, sulla propria faccia, l'intero pacchetto, di cui sia a livello finanziario sia a livello narrativo (perché il film è costruito sull'attore, come un abito su misura) è l'artefice. Sarà però difficile collocare in un simile contesto Gian Maria Volonté, l'attore che più ha osato nella costruzione/distruzione del personaggio. Non perché non sia possibile ritrovare un filo conduttore che unisca le sue interpretazioni, ma perché il suo virtuosismo non cancella la presenza e la paternità del regista, anzi la esalta. Un film diretto da Petri o da Rosi e interpretato da Volonté non cessa di essere un film di Petri o di Rosi: il lavoro di Volonté sul personaggio nasce e si esaurisce all'interno del film, senza prevaricarlo, come dimostra l'assenza di una serialità, di una catena di montaggio legata al suo nome. Il suo nome trasvola sui generi e si coniuga con un'idea di cinema in senso lato politico o di impegno, che però è una formula vuota. Il cosiddetto impegno non concerne il contenuto del film, ma le scelte professionali e inevitabilmente esistenziali: sposare un film in nome di precisi ideali, e quindi entrare in sintonia con una storia, con un personaggio, con un regista. E forte di questa scelta, ponderata anche nei suoi minimi termini, Volonté lavorava sul personaggio con un rispetto assoluto della sceneggiatura, al punto ' è ormai leggenda ' che si sottoponeva a un estenuante lavoro di copiatura, preludio ad un'attenta analisi della lingua, da modellare in funzione del personaggio (e del linguaggio dei suoi personaggi Volonté è il vero autore). Per penetrare nella storia, non per uscirne. Per entrare nel personaggio e iniziare un complesso lavoro di immedesimazione, alla fine del quale lo spettatore assiste a uno sdoppiamento: il personaggio e l'attore che convivono entrambi sullo schermo, e non si capisce dove finisce Aldo Moro e dove inizia Volonté. E lo stesso dicasi per Piero Cavallero, Bartolomeo Vanzetti, Enrico Mattei, Giordano Bruno, ma anche per i personaggi di fantasia. Come osservava Elio Petri, Volonté "ha una capacità trasfigurativa pazzesca. È un grande osservatore dal vero e quindi potrebbe essere uno straordinario attore naturalistico. Ma in realtà poi il contributo della sua nevrosi al personaggio che interpreta ne trasfigura i caratteri. C'è una doppia trasfigurazione: una trasfigurazione di Volonté nel personaggio e quindi Volonté assume tutte le caratteristiche del personaggio; poi c'è una trasfigurazione del personaggio in Volonté, il personaggio ritorna a Volonté, alla sua allucinazione, alla sua sofferenza di stare al mondo". La maschera non cela mai completamente il volto dell'uomo, più che dell'attore. Volonté è sempre il personaggio, eppure è sempre se stesso: una personalità poliedrica e travolgente che trova completa espressione in ruoli diversissimi, come se la sua estensione di attore non conoscesse limiti (e lo dimostrano gli sviluppi della sua carriera, ripartita fra cinema, televisione e teatro). Sempre, però, al servizio del film, con l'umiltà che sgorga naturale dal duro lavoro quotidiano. Certo che l'avvento di Volonté nel cinema italiano uscito dal neorealismo non poteva non essere dirompente, chiudendo la strada ai dilettanti allo sbaraglio, presentati come "attori presi dalla strada", e a pressapochismi tipicamente nostrani. Se vogliamo, Volonté è stato, ancor prima che un attore, un metodo da studiare attentamente (come ha fatto Fabrizio Deriu nel bellissimo Gian Maria Volonté. Il lavoro d'attore, edito da Bulzoni nel 1997), avendo come punti di riferimento e di confronto l'Accademia d'Arte Drammatica e il sempre citato Actors Studio. Un metodo che ha avuto un solo, magistrale, esponente e nessuno allievo. Ma questo, inesorabile, è il destino dei grandi.