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Cos’hanno in comune Fellini e Adorno? Wenders ed Eraclito? O Moretti e San Paolo?
Semplice, la pensano allo stesso modo. Di coppie così ce ne sono molte altre (perfino un Piccioni con Schopenhauer) nel poderoso Film che pensano di Umberto Curi (Mimesis, 589 pp, € 25), con cui il filosofo veronese si avventura nel sentiero minato dei rapporti possibili tra cinema e filosofia.
Per fare sostanzialmente tre cose: primo, la tara alle tante introduzioni al tema che hanno preso a circolare in Italia in anni recenti, alcune più meritevoli di attenzione di altre; secondo, superare il dualismo che vuole da una parte la filosofia e dall’altra il cinema come oggetto di interrogazione della prima: no, per Curi il cinema è filosofia; terzo, censire autori e opere varie per costruire una ideale, seppur parziale, “cine-sofia” (il termine è nostro).
Un lavoro di vent’anni, con lo scopo di allargare l’orizzonte del pensiero critico (non necessariamente di quello della critica) sul cinema, già di suo interdisciplinare. Un tentativo unico nel suo genere, senza modelli a cui riferirsi e che, è l’auspicio del filosofo, andrà valutato iuxta propria principia. Non mancano le difficoltà, perfino le aporie ma il tentativo è sufficientemente ricco di intuizioni da sbiadirne i difetti. A incominciare dall’approccio poco accademico, per cui si parla di film e non di cinema. E non è un escamotage per essere più pop.
Il Mito è la forma-pensiero del cinema
Film che pensano non è l’ennesimo libro di critica cinematografica, non ha intenti estetici e non vuole rileggere la storia del cinema magari imbellettandola con qualche citazione dotta della storia della filosofia. La sua proposta è un esercizio di analisi dell’opera filmica che provi a rendere più compiutamente leggibile la sua filigrana concettuale.
Mirabili alcuni esempi, come nel caso di Billy Wilder, la cui filmografia è una continua variazione sul tema del “due”, una ripresa della questione edipica sotto i motivi narrativi del doppelganger. Edipo è uno dei tanti antenati greci citati da Curi e il Mito è l’altro grande versante teorico di cui una filosofia del cinema non può fare a meno. Da Iride a Penelope, da Asclepio a Orfeo, il sapere antico ha saputo meglio di quello moderno “pensare” figurativamente e narrativamente.
E qui veniamo al cuore della questione del saggio. Nella lunga introduzione Curi sostiene che bisogna liberarsi di quei pregiudizi che irretiscono una corretta trattazione del tema. Anzitutto la convinzione che esistano film filosofici e film non filosofici. Anche perché, ragiona l’autore, opere come il Socrate di Rossellini o il Wittgenstein di Derek Jerman sono le meno interessanti dal punto di vista del pensiero. Si deve poi superare una visione ausiliare del cinema, per cui il film debba necessariamente “illustrare” un argomento. Terzo e ultimo preconcetto citato da Curi è la convinzione che siccome vedere un film è un’esperienza piacevole, non è degna di attenzione da parte del pensiero.
The Prestige, 2006Un film noioso non è per forza più profondo
Il discorso ovviamente cambia se i film in questione sono lunghi e noiosi. C’è una convinzione implicita che il lavoro intellettuale sia tendenzialmente un mestiere a-patico, privo di consonanze emotive. A meno che – secondo la fraintesa massima eschilea mathemata pathemata – l’emozione in questione non sia il dolore. Eppure pathos, in greco, non afferisce alla sola sfera dell’emotività negativa ma a tutte le sue manifestazioni, incluse quelle positive.
Sia Platone che Aristotele sostengono che la vera filosofia scaturisce da un thauma, ovvero da un’emozione. Con l’espressione “esperienza emotiva” (Befindlickhkeit), Heidegger indicherà più tardi una modalità fondamentale con cui l’uomo si apre ai molteplici modi dell’essere. I greci, sempre loro, lo sapevano bene. Da Platone alla tragedia attica, col tramite decisivo della Poiesis aristotelica, avevano ben compreso come lo statuto argomentativo del mito non fosse inferiore a quello del logos, la differenza non la faceva il potenziale di verità, ma di piacevolezza.
Associare il cinema al mythos, come fa Curi, potrebbe far insorgere il dubbio che lo si voglia ridurre al suo contenuto. Ed è qui uno dei passaggi più controversi del libro. Perché per quanto Curi si appresti a dire che il cinema racconta storie ma lo fa combinando una serie di linguaggi, tra i quali anche quello letterario (la sceneggiatura) e che lo stesso Aristotele, sempre nella Poiesis, chiarisca che “è fonte di piacere guardare le immagini, perché coloro che contemplano le immagini imparano e ragionano su ogni punto”, il dubbio su che cosa sia più metafisico nel cinema, se il narrato o il mostrato, resta.
I filosofi del cinema
Un dubbio che sembra da una parte fugato dal rimando ai grandi studiosi dello specifico filmico come Deleuze, Derrida o Nancy, tale per cui il cinema “è una meditazione metafisica non perché tratti di temi metafisici ma perché esso stesso pensiero, luogo di un rapporto con il senso del mondo”; ma che sembra riapparire quando Curi passa all’analisi di alcune opere cinematografiche, in cui il discorso interpretativo sembra focalizzarsi massimamente sul contenuto, sulla storia. Oscillazioni che riflettono la complessità scivolosa della materia, la sua costitutiva e insolubile ambiguità, segnalando uno sforzo ermeneutico tutt’altro che esaurito.