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“Quando si è presentata l’occasione di raccontare questa storia, abbiamo pensato di fare qualcosa di diverso. Non inquadrare tutto ciò che vediamo, ma gli occhi di chi guarda” continua l’autore e regista di Selfie, in sala dal 30 maggio, e conclude: “Invece della Luna, abbiamo inquadrato il dito.”
Agostino Ferrente presenta il documentario insieme al co-produttore Gianfilippo Pedote e ai protagonisti, Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, ragazzi del Rione Traiano di Napoli. Insieme, i due ci raccontano la storia della vita di un quartiere e dei tragici eventi riguardanti la morte di Davide Bifolco, nel 2014, il tutto con lo sguardo fisso in camera.
“Ho provato ad annullare la mediazione tra regista e protagonista” argomenta Ferrente. “Approfittando della dimestichezza dei ragazzi con il cellulare, li ho fatti guardare allo specchio. Si osservano mentre recitano se stessi, che è molto difficile. Loro ci mettono la faccia, si sono messi a nudo, neanche troppo metaforicamente”.
Cosa dicono, quindi, Alessandro e Pietro della loro esperienza dietro (e davanti) alla macchina da presa? “La cosa bella del rione è l’umanità che ci trovi dentro” commenta il secondo, “La cosa brutta è l’abbandono di questa umanità. Non ci sono le istituzioni né attività sociali, niente che possa aiutare i ragazzi”.
Da parte sua, Alessandro aggiunge sul Rione Traiano, esempio e simbolo di molti quartieri e periferie di Napoli e ovunque: “Per conoscerlo, ci devi stare dentro. All’apparenza è brutto, malfamato, ma vieni accolto sempre come uno di famiglia. Le persone sono il vero valore. Abbiamo accolto anche Agostino (il regista, ndr), che i primi giorni veniva scambiato per poliziotto in borghese”.
Ricordiamo che il film è patrocinato da Amnesty International e ha debuttato alla 69° edizione della Berlinale, lo scorso febbraio. Ha poi partecipato a diversi festival e rassegne in tutto il mondo. “Non è un documentario tanto local” afferma, a proposito, il regista. “Chi ha visto Selfie ci ha scritto e confermato che lo stigma, il pregiudizio e il razzismo è universale. Non ci siamo inventati nulla. Per ragazzi in difficoltà che lasciano la scuola, in famiglie senza soldi né strumenti per recuperare, che non trovano lavoro, l’ammortizzatore sociale diventa la criminalità.”