Seconda giornata della XXIV edizione del Tertio Millennio Film Fest (TMFF), il festival del dialogo interculturale e interreligioso organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo. Traendo spunto da una citazione del poeta Friedrich Hölderlin, lo storico festival della Fondazione – nato nel 1997 per volere di Papa Giovanni Paolo II – propone una lettura dell’attualità partendo da “ciò che salva”, cercando nella filmografia contemporanea non il lamento del presente ma spunti di ripresa, di salvezza, per individui e comunità.

Disponibile fino al 2 marzo su MYmovies, il Festival propone oggi la visione di Oylem (Francia, 2020, 72’), diretto da Arthur Borgnis.

Nel limbo della Yiddishland, tra la Polonia, i Carpazi e i villaggi sul Mar Baltico, due uomini narrano frammenti delle loro vite. Mendele è cresciuto in uno shtetl; tormentato dal peso delle tradizioni e animato da un feroce desiderio di libertà, scopre le idee socialiste e vede in loro un nuovo messaggio messianico. Il giovane Yitskhok vive nel ghetto di Vilnius; si ribella contro la sua miserabile condizione e fa della sua vita un inno alla speranza. Immerso in un commovente bianco e nero, “Oylem” è un viaggio poetico nel cuore della storia e dell’anima ashkenazita. Un popolo finito nell’oblio, cancellato con la sua storia e tradizioni, dalla furia dei pogrom nazisti: un crimine che non può essere rappresentato. Questa magnifica elegia funebre sceglie una strada più ardua e alla fine più rispettosa: ne riprende i villaggi, le case, gli edifici che ne hanno contenuto le vite, ora svuotati ma non vuoti. Si avverte la presenza. Indipendentemente dalle due voci fuori campo che si immagina appartengano a due testimoni di allora e la cui voce e la melodia delle parole si fonde con i suoni della natura, incatenandoci entrambi a una processione suggestiva di immagini.

Essere Yiddish, coro a due voci: Mendele cresciuto in uno shtetl, anelante libertà, messianicamente approdato al socialismo; Yitskhok, il ghetto di Vilnius per domicilio, la residenza nella speranza. Il bianco e nero del francese Arthur Borgnis, già stagista per Leos Carax (Les Amants du Pont Neuf) e assistente per Luciano Emmer, non è manicheo, eppure non ammette mezze misure: la Memoria della condizione ashkenazita non vuole figure umane, vuole natura, costruzioni, libri, ma l’umano incarnato no. C’è la Shoah di mezzo, sicché il suo esordio al lungometraggio di finzione, Oylem, deve ineluttabilmente farsi ghost story, epifania per immagini e suoni dell’Umglik, il Disastro. L’umanità risuona, nella collettanea di lacerti, battiti e anfratti delle letteratura Yiddish, ma non si vede, perché è stata – letteralmente – spazzata via: Yiddishkeit, il mondo estinto dalla Soluzione finale. Borgnis rifugge dal folklore, smorza l’antropologico, esalta l’anima ashkenazita per quel che è stata, per quel che è, ancora: non un memoriale, ma un ritorno al futuro, senza concessioni né superfetazioni. Quattordici autori, due voci, un’evocazione: Oylem, in ebraico Olam, è folla, mondo e, poeticamente, eternità. Borgnis fa professione di fede nella sottrazione e, insieme, nella contemplazione: il come eravamo (erano) è accudimento in contumacia, presa in carico di una spoliazione, canto di un genocidio. Il cinema, questo cinema, si fa necessariamente ontologia: vedere è esistere, vedere è (far) riesistere. Prima che sintassi, grammatica cinematografica: Oylem sceglie la paratassi, assegna alla camera una posizione morale che sa di ultimo avamposto, perfino di utopia. Nondimeno, la Storia non è abdicata, è spopolata ma presente, financo resistente. Borgnis chiede molto allo spettatore, ovvero di elevare a testimonianza il proprio sguardo, il proprio guardare: immagini e suoni che esistono in quanto c’è chi osserva. Così è la Memoria, così la corresponsabilità di un rimanere. Guardare come elementare, radicale salvezza. (Federico Pontiggia)

 

Disponibilità: dalle 11:00 di mercoledì 24 febbraio fino alle 11:00 di venerdì 26 febbraio.

Per quanto riguarda il concorso dei cortometraggi, invece, il titolo della giornata è El silencio del rio (Perù, 2020) di Francesca Canepa.

El silencio del rio

Juan è un bambino peruviano di nove anni, che vive con il taciturno padre in una casa galleggiante sul fiume Rio delle Amazzoni. Un viaggio allegorico sullo sfondo idilliaco della foresta pluviale, in cui attraverso la natura e tutto ciò che circonda i protagonisti, si inizia a rivelare l’identità del padre.

Disponibilità: dalle 11:00 di mercoledì 24 febbraio fino alle 11:00 di venerdì 26 febbraio.