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“Il razzismo è un fenomeno mondiale e questo film vuole far aprire gli occhi alla gente”. Spike Lee – come da tradizione – non le manda a dire. Il solito berretto in testa e pugno chiuso, il regista di Atlanta presenta a Cannes, in concorso, BlacKkKlansman.
Il film prende spunto dal libro autobiografico di Ron Stallworth e ci riporta nell’America anni ’70, a Colorado Springs. Stallworth (John David Washington) è il primo agente di polizia nero in città. Stanco di occuparsi delle scartoffie, accetta di infiltrarsi ad un raduno di studenti afroamericani per l’arrivo di un carismatico leader inneggiante la black revolution.
Ma l’indagine che davvero lo porterà alla ribalta è quella che inizia qualche giorno dopo, quasi per caso. Gli basterà comporre il numero telefonico comparso su un annuncio pubblicitario, e da lì a poco – inneggiando alla supremazia bianca (“God Bless White America!”) diventa un membro del (riformatosi?) Ku Klux Klan, arrivando persino a intrattenere lunghe conversazioni con il leader David Duke e servendosi di un collega bianco (l’ebreo Flip Zimmerman, interpretato da Adam Driver) quando bisognava presentarsi ai vari raduni.
"Mentre giravamo il film, la scorsa estate, sulla CNN ho visto quello che era successo alla manifestazione di Charlottesville, con gli scontri tra membri del Ku Klux Klan e antirazzisti che ha causato tanti feriti e una vittima, l’antirazzista 32enne Heather Heyer", racconta Spike Lee, che proprio a quella ragazza dedica il film, chiudendolo non a caso con le reali immagini di quel giorno: “Le ho usate dopo aver chiesto il permesso alla madre della vittima”, spiega il regista del film, che negli States uscirà il 10 agosto, ad un anno esatto dall’inizio del processo a James Fields Jr., ventenne al volante dell’auto che si schiantò volontariamente sui manifestanti.
“Anche in quell’occasione Trump (che Spike Lee non nomina mai per nome, chiamandolo sempre ‘motherfucker’, ndr) non ha preso posizione, non ha speso una parola per condannare il razzismo”.
Questione, quella razziale, che il regista non fa fatica ad associare alla nascita stessa dell’America: “Il mio paese nasce con il genocidio dei nativi americani e con la schiavitù”, ma non dimentica neanche l’attuale situazione europea: “Non è che voi siate messi meglio, basti pensare a come trattate arabi e migranti. Il razzismo è un fenomeno mondiale e questo film andava fatto a prescindere, anche solo per dare una semplice speranza alla gente che le cose possano cambiare, per farli rendere conto. Magari non dà delle risposte, ma può creare una discussione sul razzismo”.