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Il film di chiusura di ieri, del regista cinese Yang Chao, ha regalato al Festival di Berlino un grande momento. Un metafisico, misterioso racconto su un viaggio in nave sullo Jangtse, il fiume più lungo della Cina. Anche questo è Berlinale: la sorpresa dell’imprevisto. Di questo regista non aveva sentito parlare nessuno e, francamente, non ci si aspettava nulla. Dopo la satira tragica e un pò verbosa di Death in Sarajevo e il riadattamento un po' hollywoodiano di un interno berlinese ai tempi del nazismo di Alone in Berlin, Chang Jiang Tu (Crosscurrrent) riaccende il maxi schermo del Berlinale Palast.
"Il tempo scorre come un fiume, notte e giorno“ – il film di Yang Chao inizia con questa citazione. Vediamo l’immenso Jangtse avolto nell’oscurità, un ragazzo pesca un pesce nero, un antico rituale cinese per liberare l’anima di un genitore morto. Poi è di nuovo il fiume a tornare in scena in una serie di piani sequenza mozzafiato. Chun (Qin Hao) è in viaggio su una nave arrugginita tra Shanghai e Yibin. La nave porta un carico misterioso, forse illegale. Ma non è questo il punto: Chun ha trovato un misterioso libro di poesie di un poeta sconosciuto. Per lui questo viaggio diventa un viaggio attraverso quei piccoli testi pieni di magia. Le poesie portano il titolo dei luoghi disseminati lungo lo Jangtse. Questi posti fermi nel tempo (ma esistono davvero? Purtroppo non abbiamo avuto occasione di chiederlo al regista), compaiono sullo sfondo, commentati dalla voce fuori campo di Chun.
È vero, fino a metà film non si capisce dove il regista voglia arrivare. Ma se ci si abbandona al racconto della coscienza di una bella sceneggiatura portata magistralmente sullo schermo, si viene abbondantemente ricompensati. Il film di Yang è immerso in colori volutamente anti cinematografici: blu granulari profondi, marroni sporchi, grigio sbiadito dalla pioggia. Colori che si confondono ancora di più in una nebbia onnipresente, di maestosa minacciosità.
Questo film ci porta in un mondo di pensieri e poesie e oltre: Chun incontra una donna e inizia così una storia d’amore mistica. È così che i confini del racconto si confondono sempre di più, tra ieri e oggi, tra il fiume a monte e quello a valle, tra la vita e la morte, tra politica e religione, tra poesia e realtà. E sì, il film è difficile da comprendere, si può apprezzare su un piano associativo. Forse si deve vedere due volte per accettarlo. Ma la forza delle immagini, il flusso della coscienza che spinge via il racconto, la misteriosa magia della storia d’amore – tutto funziona.
Crosscurent respira dello spirito del cinema come nessun altro film in concorso è riuscito a fare finora.
Sarà difficilissimo per i prossimi contributi in concorso tenergli testa.