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Cate Blanchett ha presentato al teatro HAU, nella cornice dei Berlinale Talks la sua serie che ha scritto e prodotto e che ora ha venduto Netflix, Stateless. A metà dell'evento, per un giovane seduto nel pubblico l’armonia propagata dai partecipanti alla discussione era diventata evidentemente troppo. Si è rivolto alla star di Hollywwod con una domanda secca: "possiamo ancora permetterci la speranza? La speranza è un atteggiamento passivo nei confronti degli eventi e della realtà. È una dimensione intima che non modifica la realtà”. Ma neanche Cate Blanchett ha potuto trattenersi. E così ha interrotto bruscamente. "Avere speranza di fronte alla disperazione”, ha detto, “è una delle cose più attive e coraggiose che puoi fare".
Blanchett dal 2014 lavora è ambasciatore dell'Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Il titolo dell’evento era Places like Home, ed è stato organizzato dalla sezione Berlinale Talents. Blanchett ha proseguito riallacciandosi alla trama della sua serie accolta tra gli applausi del Festival. “Stateless parla dell’esperienza dello sradicamento, e di come ci si sente ad appartenere a una comunità e a un luogo che può essere chiamato casa”.
Cate Blanchett vede il suo intervento alla 70° Berlinale come il culmine di un viaggio durato sette anni. L’attrice due volte premio Oscar ha concepito per la prima volta il dramma nella sua cucina. Era il 2013. “Avevo avuto una conversazione sull'immigrazione con la scrittrice Elise McCredie che ha suscitato in me l'ambizione di mettere insieme storie di persone coinvolte nel sistema di controllo delle frontiere australiano”.
Un argomento che ha una risonanza personale particolare per l’australiana Blanchett. “Dopo approfondite ricerche e discussioni, alla fine ci siamo concentrati su quattro diverse narrazioni che avrebbero costituito la spina dorsale di Stateless: una hostess di linea aerea (Yvonne Strahovski) in fuga da un culto suburbano, un rifugiato afgano (Fayssal Bazzi) in fuga dalla persecuzione, un padre australiano (Jai Courtney) che va avanti con un lavoro sottopagato e un burocrate (Asher Keddie) coinvolto in uno scandalo nazionale. Alla fine i loro percorsi convergono in un centro di detenzione nel deserto australiano”.
La domanda allora era come meglio portare questa storia complessa e stratificata sullo schermo nel format della serie. “Si poteva raccontare questa storia in molti modi, ma alla fine ho ritenuto che la televisione fosse il mezzo giusto. Volevo che i temi di Stateless raggiungessero le persone nelle loro case, nella speranza che scatenassero un dibattito sull'immigrazione, proprio come quella che aveva avuto io nella mia cucina sette anni fa”.
Quale è stato il punto di partenza per la serie? “Il progetto non è nato da una storia particolare, ma dalle storie in arrivo dai centri di detenzione australiani per l'immigrazione e la trasformazione del dibattito pubblico sul tema. Non si basa sull'esperienza di una persona, ma di decine di persone con cui abbiamo parlato con l'UNHCR. Il suo lavoro con le Nazioni Unite ha dato a questo progetto ulteriore risonanza? “Sì, abbiamo iniziato a parlarne nel 2013 e ho iniziato a lavorare per l'UNHCR nel 2014. Ho iniziato a lavorare con loro sulla questione dell'apolidia.
Il titolo della serie si riferisce all'apolidia in un senso più poetico, non in un senso legale, fisico. Riguarda maggiormente l'identità e la perdita dell'identità delle persone quando si trovano di fronte a una detenzione a lungo termine, quando diventano un numero, quando vengono recisi i legami con la loro vita, la loro casa e cultura e separati dalle loro famiglie. È qualcosa che ho sentito visceralmente”.